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 2024  novembre 05 Martedì calendario

Postorino Piangiolina

Piangiolina sono io. Così mi chiamavano quando a sei anni frequentavo la seconda elementare perché avevo saltato la prima, e in quella classe di bambini che si conoscevano già tutti mi sentivo sola, diversa, mi mancava mia madre. Immaginavo che, mentre infilava i panni in lavatrice, qualcuno la sorprendesse alle spalle e la portasse via, e io ero a scuola, non potevo salvarla. Piangevo a singhiozzi e persino la maestra mi chiamava ciangiulìna: perché il rimprovero fosse più incisivo, ricorreva al dialetto reggino. Sulla pagella scrisse: «La bambina è intelligente, ma troppo emotiva». Avevo imparato una parola nuova e la ripetevo per giustificarmi con chiunque chiedesse: perché piangi? Sono emotiva, rispondevo. Tipo: sono celiaca, non dipende da me, se si guarisce non lo so. Sotto sotto, mi pareva un’accusa, l’attribuzione di una diminutio, e ancora adesso mi pare tale se penso che, nella campagna per le presidenziali negli Stati Uniti, i repubblicani la usano per denigrare Kamala Harris – una donna.
Piangere è la prima azione che facciamo venendo al mondo, è il segno del nostro essere in vita, non c’è bisogno di imparare. Se mai io ho dovuto imparare a non farlo. Prima di andare in un luogo sconosciuto in cui avrei dovuto cavarmela da sola, prima di fare un’attività che mi metteva ansia, dovevo concentrarmi, dirmi che non c’era ragione di piangere, sperare con tutta me stessa che le lacrime non scendessero, o che almeno avrei saputo nasconderle – controlla se hai in tasca un fazzoletto. È stato come con la bicicletta, sono serviti esercizio e cadute, ma con le lacrime mi sono esercitata per anni, mica è bastato un giorno. Crescendo, ho fatto un’infinità di cose che nessuno della mia famiglia aveva fatto, e ho realizzato molti dei miei desideri, ma la tenacia e l’autodeterminazione non hanno rimpiazzato l’emotività, probabilmente se ne sono nutrite.
Nella mia storia per bambini, Piangiolina incontra un nuovo amico che non capisce le sue lacrime e non le dà per scontate. È lui a liberarla dal tributo che, piangendo, lei versa ai genitori, cioè alla sua storia personale. Come tutti.
Spesso la gente che non riesce a piangere dice: beata te, almeno ti sfoghi. Ma non sempre piangere porta sollievo: stando a certe ricerche, può peggiorare l’umore. Eppure le lacrime emotive – differenti da quelle basali, che servono a lubrificare e proteggere l’occhio, e da quelle riflesse, causate dall’irritazione: per la polvere, o le cipolle – contengono l’encefalina, un analgesico naturale.
Se il pianto di dolore, paura, malinconia, rabbia, gioia – fenomeno esclusivamente umano – è sopravvissuto all’evoluzione, deve avere uno scopo, al contrario di quanto sosteneva Charles Darwin. Tanto più che ogni persona produce in media dai 60 ai 110 litri di lacrime all’anno (in pratica, una vasca da bagno), e nel corso dell’esistenza può produrne fino a 9000 (sono abbastanza sicura di aver già superato la soglia). Le donne piangono circa 47 volte all’anno, contro le 7 degli uomini, e forse dipende dalla prolattina, un ormone presente in maggior misura nell’organismo femminile.
Qualcuno crede che le sostanze chimiche provocate dallo stress possano essere espulse con le lacrime emotive, ma la teoria più attendibile è che questo genere di lacrime inneschi il legame sociale: di fronte a chi piange, si attivano le stesse aree neuronali che si attivano quando soffriamo noi. Le lacrime emotive contengono più proteine, che le rendono viscose: aderendo alla pelle, scorrono sulle guance più lente; sono quindi più visibili – un indice di vulnerabilità che suscita empatia.
A esser sinceri, la mia maestra non mi sembrava tanto empatica, e quel che subito ho appreso delle lacrime è la vergogna di non trattenerle: non si piange in pubblico (anche se a quanto pare l’aereo è uno dei posti in cui sgorgano più lacrime, nascoste dalle coperte; l’80 per cento degli adulti però piange in casa, dopo il tramonto, tra le 18 e le 20).
Nel memoir Un’Odissea di Daniel Mendelsohn, il vecchio padre, che segue il seminario sul poema omerico tenuto dall’autore, suo figlio, non accetta che Odisseo sia chiamato eroe, perché «piagnucola». A quest’osservazione le matricole sghignazzano, ma noi sappiamo bene che gli eroi omerici si disperano senza pudore. Chi ha la forza di piangere e non sentirsi ridicolo è imbattibile, spiega Matteo Nucci ne Le lacrime degli eroi, dove racconta che fu Platone a imporre agli uomini di governo un modello alternativo. Gli antichi Romani, poi, piangevano addirittura più dei Greci: le lacrime «fornivano un ausilio imprescindibile al politico, erano l’arma preferita degli oratori e il mezzo con cui distinguersi dal volgo», scrive Sarah Rey ne Le lacrime di Roma.
Presentando il suo programma sulle armi da fuoco, nel 2016 il presidente Obama pianse per i minori uccisi quattro anni prima in una scuola del Connecticut: ebbe il coraggio di restituire al pianto la sua dimensione sociale, di «rappresentazione collettiva» nel senso usato da Durkheim, e il suo potere etimologicamente seduttivo.
Anche Gesù piange davanti agli altri, nei Vangeli: per la morte di Lazzaro, prima di risuscitarlo, e per Gerusalemme, alla quale era (e purtroppo è) nascosta «la via della pace».
A pensarci, le chiese aperte negli orari in cui non c’è messa sono state per me rifugio; una mattina piangevo con tale intensità, seduta su una panca, che una donna mi ha abbracciata, sussurrandomi: vita mia. A me, una sconosciuta.
Voltandosi indietro a guardare la Terra, così lontana, l’astronauta Alan Shepard si commosse. Sulla Luna la forza di gravità è ridotta di un sesto e le lacrime scendono pianissimo, come fiocchi di neve.
Piacerebbero a Piangiolina, che più di tutto desidera vedere la neve. Forse è per questo che piange senza motivo. Chi ha smarrito ogni speranza, dicono i clinici, non piange più. Le lacrime implicano sempre un’aspettativa – una specie di preghiera. Allora, a dispetto della vergogna, non mi resta che accettare la mia contraddizione tutta umana: avrò lacrime finché avrò desideri.