La Stampa, 5 novembre 2024
L’errore fatale di uno Stato che libera i boss della mafia
Sono trascorsi più di trent’anni dalla terribile stagione delle stragi di mafia che misero in ginocchio l’Italia e resero fragile la nostra giovane democrazia. Una ferita profonda, tanto violenta da far temere addirittura per la tenuta del Paese che, però, resse l’urto soprattutto grazie alla decisa reazione delle istituzioni che impiegarono le migliori risorse per fermare lo strapotere mafioso. Lo Stato si dimostrò all’altezza e, per una volta, usò la forza necessaria per combattere un nemico mostruoso in passato galvanizzato da sottovalutazioni e inerzie istituzionali. Cosa nostra, insomma, fu “normalizzata” fino a diventare debole come raramente la si era vista. I boss furono strappati alle loro latitanze dorate, molti beni illegali finirono nelle casse dello Stato, picciotti e boss impararono a conoscere il carcere senza gli sconti e la benevolenza in passato riservati ai mammasantissima abituati a vivere in cella come al Grand’Hotel.
A quel punto magistrati come Falcone e Borsellino avrebbero consigliato di insistere nel ridimensionare ulteriormente l’associazione mafiosa, anche per non cadere nel fatale e ricorrente errore di far riprendere fiato al mostro. La storia passata lo ha dimostrato: Cosa nostra non muore facilmente ed è capace di una ripresa rapida e incontrollabile.
E invece il “fatale errore” si ripresenta: una controproducente ricerca di “ritorno alla normalità” (dopo anni di fruttuosa emergenza) induce l’apparato repressivo a seguire le sirene di una politica poco attenta. Così accade quello che in passato si è sempre dimostrato un “regalo” alla mafia: abbassare la guardia e guardare alle organizzazioni criminali come a fenomeni “normali”.
Ed ecco le recenti scarcerazioni di boss e gregari di Cosa nostra, alcuni stragisti con condanne definitive, anche ergastolani, oggi liberi, o semiliberi o gratificati con permessi speciali, per aver usufruito dei benefici riservati a “detenuti modello”. Altri tornati fuori dalle sbarre per decorrenza dei termini o, comunque, per “inadempienza della giustizia” qual è, per esempio, il ritardo nel redigere le motivazioni delle sentenze, senza le quali viene meno una delle possibilità di ricorso degli imputati.
Ma entrambi i motivi di questo allentamento delle difese istituzionali sono spie di un atteggiamento pericoloso da parte della macchina preposta alla repressione mafiosa, perché tradiscono una sottovalutazione del fenomeno. La presenza di agguerrite organizzazioni criminali in una vastissima porzione di territorio nazionale dovrebbe far riflettere sulla scelta di adoperare strumenti giuridici condivisibili per “normali realtà criminali”. Il recupero del detenuto, per esempio, è obiettivo che nessuna persona ragionevole potrebbe mettere in dubbio se vivessimo, specialmente al Sud, una normale dialettica tra bene e male. Ma cosa c’è stato di normale nella tragica nostra recente storia?
Sappiamo che il carcere è uno dei temi cruciali dell’essenza mafiosa. Dice un vecchio adagio siciliano che “L’uomo d’onore è nato per soffrire” e dunque mette nel conto un po’ di anni di carcere. Tre, quattro, anche di più, ma non il carcere vero. Quello no, quello devono farlo i poveracci, i boss sanno di avere quasi diritto a un trattamento più docile. Così funzionava prima: Masino Buscetta, prima di pentirsi, scontava la sua pena nell’infermeria del carcere dell’Ucciardone. E quando decise di evadere cosa fece? Convinse i giudici di sorveglianza di essere un “altro uomo” rispetto alla persona di prima, detenuto modello lo era e dunque ottenne la semilibertà. Ovviamente dalla semilibertà passò alla libertà totale in latitanza, in Brasile. I vari Galatolo, Alfano, Pullarà, assassini e stragisti come quel Formoso condannato per la strage di Milano e oggi semilibero, sono redenti? Nessuno di loro ha mai dato prova di conversione visto che durante gli interrogatori non hanno aperto bocca se non per declinare nome e cognome e basta. Ma sono detenuti modello. Giusto, sopportano il carcere, proprio come deve fare ogni uomo d’onore degno di questo nome. Il saper stare agli arresti non sempre è sintomo di cambiamento, qualche volta addirittura potrebbe essere affermazione di mafiosità. Chiedetelo a chi sta rinchiuso da decenni senza mai essere sfiorato dal dubbio di poter collaborare con lo Stato. —