La Stampa, 5 novembre 2024
Intervista a Colum McCann
Prima di andar via, Colum McCann prende un libretto dagli scaffali affollati di titoli distribuiti in ordine sparso nella sua casa di Upper East Side: James Joyce, Ian McEwan, le molte traduzioni del suo Apeirogon (uscito in Italia con Feltrinelli), un dizionario inglese-italiano, Toni Morrison, Malamud, Chimamanda Ngozi Adichie. I romanzi sono i più diversi. Il libricino però non è di uno scrittore. Sono estratti di un discorso pronunciato ad aprile 2023 all’università di Belfast, in Irlanda, dal senatore George J. Mitchell. Si intitola: The possible. Il possibile. «Se negli Anni 90 mi avessero detto che l’Irlanda avrebbe vissuto questi ultimi 25 anni di pace, non ci avrei creduto. E invece è accaduto». Se è successo lì, questo è il senso, può succedere ovunque. «Perché se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che la storia stessa non finisce mai».
Trentotto anni fa Colum McCann è salito sulla sua bicicletta e ha girato gli Stati Uniti per un anno e mezzo. «Sono partito da Boston, sceso fino in Florida, ho attraversato New Orleans fino al Messico, New Mexico, Colorado, Utah, Wyoming, e mi sono fermato a San Francisco». Era venuto qui giovanissimo, a 21 anni, «perché volevo scrivere un romanzo, il che a quell’età non aveva proprio senso». Suo padre era stato calciatore e giornalista. Lui ha cominciato a scrivere le sue prime cronache sportive, a Dublino, a dodici anni. Si sarebbe mai aspettato che l’America arrivasse a questo appuntamento elettorale così divisa e lacerata? «No, mai». Ma c’è un male – questo dice lungo tutta l’intervista – che lo scrittore di Una madre chiama «la malattia delle certezze». Ognuno ha la sua, nessuno ascolta più le ragioni degli altri.
Ha scritto Apeirogon nel 2020. Nel 2023, il Medio Oriente è precipitato in un incubo ancora maggiore di quello raccontato nel libro, per il massacro del 7 ottobre, per la strage di Gaza, gli attacchi in Libano. È ancora possibile – seguendo il messaggio del libro – non considerare chi è dall’altra parte un nemico?
«Ho parlato proprio di questo il mese scorso con Bassam Aramin e Rami Elhanan, i protagonisti di Apeirogon. La prima cosa che mi hanno detto è: non dobbiamo amarci, non dobbiamo nemmeno piacerci, sebbene speriamo che si possa. Quello che dobbiamo assolutamente fare, è capirci l’un l’altro. E l’unico modo per fare una cosa del genere è scambiando le proprie storie. Sono un israeliano e un palestinese, hanno entrambi perso le loro figlie, il 7 ottobre Bassam ha detto a Rami: vieni a casa mia, ti proteggo io. Un paio di giorni dopo, Rami ha chiamato Bassam per dirgli la stessa cosa: vieni da me. Bassam vive a Gerico, Rami a Gerusalemme. Quello che mi hanno detto, è che dopo il 7 ottobre non cambierebbero una parola di quelle che hanno pronunciato negli ultimi 15 anni. L’elefante nella stanza è l’occupazione dei territori palestinesi, che deve finire. E Bassami ha detto: “Dopo l’Olocausto chi avrebbe pensato che ci sarebbero state un’ambasciata tedesca a Tel Aviv e una israeliana a Bonn o Berlino?”. Quello di cui hanno parlato è l’assoluta inevitabilità della pace. Il punto è come ci si arriva, chi ha il coraggio di lavorarci, quali saranno le persone che cambieranno il corso della storia? Adesso è l’abisso, è difficile pensare che ci sarà un accordo di pace. Ma loro stessi pensano che sarà inevitabile. Significa essere ottimisti, sentimentali? No».
Significa seguire la ragione?
«Sì. È impossibile eliminare Israele o i palestinesi dal Medio Oriente. Devono trovare un modo di convivere, e per farlo nessuno deve dominare l’altro».
Kamala Harris in Michigan ha finalmente detto, dopo aver tenuto il tema molto basso in tutta la campagna elettorale, che farà tutto quel che è in suo potere perché ci sia la pace a Gaza e in Libano. Troppo tardi?
«Gaza è una prigione con tre carcerieri: Israele, l’Egitto e Hamas. È certamente troppo tardi. Gli americani non capiscono quanto sia complessa la questione in Medio Oriente, ma Harris lo sa e nonostante questo non se n’è occupata abbastanza. Le persone del Michigan che sono arrabbiate con lei hanno ragione. Finiranno per votare il Green party, ed è comprensibile. Ho molti amici a Gaza arrabbiati con l’amministrazione Biden. Ma c’è il diavolo che conosci e quello che non conosci».
Con Trump sarebbe peggio?
«Sarebbe disastroso. Consentirebbe a Israele di fare qualsiasi cosa. È soggetto all’adulazione e non credo conosca sfumature di pensiero. L’intera idea degli accordi di Abramo era ridicola».
La pace per i ricchi?
«Esattamente. A Trump piacerebbe colonizzare il resto della West Bank. Direbbe che i coloni portano le piscine nel deserto. Capisco che per Harris sarebbe stato difficile parlare contro l’amministrazione di cui fa parte, ma ho la sensazione che se avesse il potere, si comporterebbe diversamente da Biden. Farebbe pressione smettendo di fornire le armi o il denaro. È una donna, di colore, ha un background migratorio. Se c’è qualcuno in politica in America in grado di capire cosa significa essere palestinese, è lei. Trump sarebbe pronto a costruire casinò a Gaza».
Non pensa sia un presidente così pacifico come i suoi sostenitori lo descrivono?
«Ho una casa in Connecticut. Devo rifare il tetto e l’impianto elettrico e l’ho affidato a un costruttore del posto, Darren, che ha combattuto in Iraq. Ha ancora incubi, quella guerra l’ha spezzato, l’altro giorno è venuto a dirmi: Trump non ha mai cominciato una guerra».
E lei?
«Io gli ho detto Darren siediti, io ti rispetto, sei una brava persona, parliamone: chi ti ha mandato in Iraq? E lui ha detto: Bush. E ha realizzato una cosa a cui non aveva pensato. Sono stati Bush e Colin Powell a mandarlo in Iraq, i repubblicani, non i democratici. Ma c’è questa malattia delle certezze. Ci diciamo: ho ragione io e non voglio sentire nessun altro. E finiamo per credere a un mare di bugie».
La scomparsa dei fatti?
«Li usiamo come soldati, li mandiamo da una parte all’altra, ne usiamo uno o un altro incapaci di vedere il resto. Anche i fatti possono costruire menzogne. Le cose vere sono invece quelle ineffabili: la compassione, l’empatia, l’amore, la violenza, la gelosia. Io ho amici repubblicani, non riesco a capirli ma ci provo tutto il tempo».
Che spiegazione danno?
«Oh, economica. Dicono Trump è terribile, ma con lui l’economia andava meglio. C’erano meno immigrati. Ero più ricco quattro anni fa. Cose così. Dicono: lo odio, ma odio di più Harris».
Misoginia?
«Certo. Misoginia e razzismo. Ma non credo sia così solo in America. In Irlanda le cose stanno andando meglio perché abbiamo un ottimo sistema educativo. Per me, l’istruzione è tutto. Mia moglie è un’insegnante, ma qui non c’è alcun rispetto per gli insegnanti. Sa quando si sale su un aereo e dicono: se c’è qualcuno dell’esercito prego, salga prima, siamo lieti di averla a bordo. Tutto giusto per carità, ma io sogno il giorno in cui lo diranno degli insegnanti. Sono ingenuo?».
Forse un po’ sognatore?
«Ma solo se hai un sistema in cui cominci a rispettare le persone, soprattutto le persone in prima linea come gli insegnanti, puoi pensare di cambiare le cose. Quando 38 anni fa ho girato questo Paese in bicicletta non era così diviso. Una parte di me si dice che è solo la superficie e in fondo le persone sono le stesse di prima, ma so che non è così. E l’istruzione è la prima delle cause: deve essere universale, accessibile e uguale per tutti. Dovrebbe attraversare tutte le barriere e i confini. E il problema è anche quell’aggeggio che ha in mano».
Il telefonino?
«Abbiamo un’epidemia di solitudine e isolamento soprattutto tra i giovani. Problemi mentali. Cercano di connettersi, ma sono disconnessi. Negli ultimi 10 anni ho creato una piccola organizzazione no profit che si chiama Narrative 4».
Cosa fa?
«Prende ragazzi dalle parti più diverse del mondo e li mette in una stanza a parlare. Se tu prendi una ragazzina del Bronx e uno del Kentucky, al 100 per cento saranno terrorizzati l’uno dall’altra. Poi però dici loro: raccontate la vostra storia. E lui vede che sotto il velo arabo lei ha le cuffie e ascolta Beyoncé, e lei capisce che lui ha visto parenti uccisi dagli oppioidi come lei dalle pistole. Saranno in grado di capirsi, di mettersi nei panni l’uno dell’altro, di raccontare ognuno la storia dell’altro. E quando torneranno a casa, saranno cambiati. Siamo tutti più simili di quanto pensiamo».
L’immigrazione illegale è uno dei fattori che potrebbe aiutare più di tutto la campagna di Trump. È un problema reale?
«No, è un problema fabbricato. Torno a Darren, il mio costruttore. Mi dice: “Ehi tu vivi a New York, è terribile lì eh? Tutti che si accoltellano, immigrati che dormono per strada”. Ha quest’idea e vive in Connecticut, non in Texas o Kentucky o Alabama, dove la propaganda è anche peggiore. Ci sono un sacco di bugie e disinformazione in giro. Quando sono venuto in questo Paese sono rimasto dopo che il visto era scaduto, sono stato un illegale. Il padre di Jeff Bezos è arrivato illegalmente da Cuba. Elon Musk dal Sud Africa. Il padre del tipo di Google, arrivava dalla Siria. Non pensa ci sia un’energia fantastica che arriva da fuori? Dicono di voler proteggere l’America, ma non lo stanno facendo. Dicono: arrivano a uccidere i nostri figli».
O cani e gatti.
«Ma non c’è da ridere eh. Io non rido di Darren. Ha servito il suo Paese, si prende cura delle sue figlie, si preoccupa della comunità. Se lo facessi, se non lo rispettassi, non potrei mettermi a parlare con lui e ricordargli che è stato Bush a mandarlo in Iraq. Si tratta di riconoscere la dignità delle persone. Di ascoltarle. E di raccontare le loro storie».
Che mondo ci aspetta se vince Harris, o se vince Trump?
«Temo che in ogni caso ci possano essere violenze e che serviranno uomini e donne pieni di coraggio morale per difenderci dalle cose ridicole che vengono dette in nome dei cittadini americani. Dalle bugie. Dalla disinformazione. Dalle falsità. Temo che possano esserci violenze a ridosso delle elezioni e anche negli anni a venire».
Qual è la peggiore ferita dell’America, in questo momento?
«L’incapacità di empatizzare l’uno con l’altro, di ascoltarsi. C’è di più oltre il rosso o il blu. C’è moltissimo viola in mezzo, ma lo stiamo disconoscendo. È una ferita psicologica ed è molto profonda».
Come si ripara?
«Serviranno persone coraggiose. Altrimenti, vivremo anni terribili». —