la Repubblica, 5 novembre 2024
Il mistero delle istituzioni
«Anime belle del cazzo, per cos’altro morirono i due fratelli Kennedy, se non per un’ istituzione ? E per cos’altro, se non per un’ istituzione, morirono tanti, sublimi, Vietcong?», si chiedeva Pier Paolo Pasolini nella raccolta di poesie Trasumanar e organizzar.
«Le istituzioni sono commoventi» – proseguiva il poeta. C’è qualcosa di così misterioso in esse, «che il mistero del singolo, in confronto, è nulla». All’interpretazione di questo mistero è dedicato uno dei libri più ispirati di Massimo Recalcati, appena edito da Feltrinelli col titolo Il vuoto e il fuoco. Per una clinica psicoanalitica delle organizzazioni.
Esso è la rielaborazione delle tante esperienze fatte dall’autore all’interno di istituzioni – scuole, ospedali, imprese, associazioni psicoanalitiche – in cui ha lavorato o, in qualche caso, lui stesso fondato.
Quando un’istituzione funziona e quando si ammala? Quando respira e quando soffoca? Come ogni soggetto collettivo le organizzazioni hanno un inconscio, di cui è possibile riconoscere i sintomi, rilevare luci e ombre.
Per farlo, Recalcati ricorre a due termini, potenti ed intensi: il fuoco e il vuoto. Il fuoco, che accende e trasporta il desiderio, è l’elemento fondamentale, senza il quale non si mette in moto il processo istituente. È l’energia generativa che mobilita le istituzioni, trasmettendo loro spinta e forza innovativa. Ma perché questo fuoco si accenda, e continui a bruciare, serve un punto vuoto necessario ad alimentarlo. Senza ossigeno la combustione non si genera o si spegne, come accade appunto alle istituzioni che si chiudono su loro stesse, smarrendo il rapporto con la vita, dimenticando di essere esse stesse organismi viventi. Come, a sua volta, la vita umana è istituita, non solo al momento della nascita, ma anche dopo, attraverso il dono del linguaggio – la prima delle istituzioni umane. Origine e durata sono entrambe condizioni della vita – dei corpi individuali e collettivi. Perciò vanno pensate insieme, come fa Peter Handke – l’altro riferimento poetico di Recalcati – quando nelCanto alla durata ricorda che, per durare, l’amore tra due amanti richiede che al primo sguardo ne seguano infiniti altri, sempre nuovi e diversi.
Ma quali sono i codici affettivi sui quali i soggetti collettivi si strutturano? Recalcati ne individua quattro, ciascuno inteso come risorsa, ma anche come possibile rischio: il codice paterno della Legge, che limita il desiderio senza spegnerlo, incanalando le pulsioni entro determinati alvei. Il codice materno della Cura, destinato a trasmettere il sentimento della vita da una generazione all’altra, proteggendo la singolarità del nome dalla serialità del numero. Il codice fraterno, o della sorellanza che, se riesce a evitare il fantasma del narcisismo individuale, invita all’accoglienza dei nuovi arrivati, rendendo porosi i propri confini.Infine il codice femminile, che difende l’esperienza dell’alterazione all’interno del gruppo, vincendo l’ossessione della totalità, del tutto pieno, a favore della mutazione e della contingenza, decisive anche per la vitalità della democrazia.
Torna, da questo lato, l’esigenza del vuoto come motore di ricambio istituzionale. Recalcati lo pone al centro della prassi istituente. Ogni istituzione è attraversata, in misura diversa, dai quattro discorsi di cui parla Lacan: quello del padrone, saldato dal carisma del capo, ma sempre a rischio di bloccare il flusso del desiderio. A esso risponde il discorso isterico, che contrasta ogni appropriazione della verità, rischiando, però, la frammentazione. Poi il discorso dell’università, tendente a chiudersi su se stesso e a bloccare la parola del soggetto, eppure utile alla conservazione del sapere. E da ultimo il discorso dell’analista, che costituisce il grado zero di ogni altro discorso, secondo un principio di anarchia contrario a ogni identificazione.
Ognuno di essi ha un doppio volto, uno propulsivo e un altro inerziale. Perché l’istituzione ne venga vivificata, anziché prosciugata, occorre che essi circolino intorno al vuoto centrale, alternandosi, senza che uno solo prenda il sopravvento sugli altri. Ad assicurare tale possibilità – l’unica che può tenere in vita le istituzioni – è, però, un quinto discorso, da tempo affermato, e anche nel modo migliore interpretato, dallo stesso Recalcati. Si tratta del discorso della testimonianza, riservato ad un maestro che rifiuta tale nome appunto per preservare la possibilità di trasmettere ad altri un sapere di cui non è proprietario, ma semplice tramite. Il suo intento principale è duplice: quello di illuminare, nel senso letterale di dare luce a ciò che è oscuro, pur sapendo che la chiarezza non è mai integrale. E poi quello di mettere in moto il desiderio, provocare curiosità, produrre mutamenti, mostrando che la responsabilità deve farsi carico della fragilità dell’esistenza.