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 2024  novembre 05 Martedì calendario

I gladiatori in un saggio di Luca Fezzi e Marco Rocco

Il primo vero e proprio scontro di gladiatori di cui si ha notizia nella storia risale al 264 a.C. nei giorni che precedono l’inizio delle guerre puniche. Alla morte del senatore Decimo Giunio Bruto Pera, i figli ne onorano la memoria facendo combattere tra loro tre coppie di schiavi. Al cospetto di un pubblico che visibilmente si entusiasma a quel genere di spettacolo. Questi sei anonimi sono, secondo la tradizione prevalente, i primi gladiatori della storia romana. Come tali li annoverano Luca Fezzi e Marco Rocco nell’avvincente Morituri. La vera storia dei gladiatori, appena pubblicato da Garzanti. Gli autori chiariscono che la frase – di cui al titolo del libro – «morituri te salutant» («coloro che stanno per morire rivolgono a te, imperatore, il loro saluto») è un falso storico. Quantomeno nell’accezione attribuita ai gladiatori. Tali parole sono riportate, una sola volta, dal biografo latino Gaio Svetonio Tranquillo nella Vita dell’imperatore Claudio. A pronunciarle, però, non furono dei gladiatori, bensì un numero assai cospicuo (diciannovemila) di nemici sconfitti che erano stati condannati a morte. Tacito, negli Annali, colloca l’episodio a conclusione di una battaglia navale sul lago Fucino tra rodiesi e siciliani. Svetonio sostiene che, quando Claudio udì il grido solenne e disperato di quella massa di uomini destinati ad essere uccisi, manifestò una qualche esitazione. Al che quei disgraziati si illusero che fosse stata concessa loro la grazia e smisero di combattere. L’imperatore allora, ricostruiscono Fezzi e Rocco, «si alzò e, pur notoriamente claudicante, corse qua e là intorno al lago, in parte minacciando e in parte supplicando» per costringerli a riprendere il combattimento. In ogni modo non si trattava di gladiatori. Inoltre, fino a quel momento la frase «morituri te salutant» non era mai stata pronunciata. E in seguito non comparve mai più.
Qualcosa che assomigliava a uno scontro tra gladiatori la si può invece trovare già nel ventitreesimo canto dell’Iliade. Ma non si trattava di uno scontro tra prigionieri sconfitti, né tra schiavi. Omero racconta che Achille, ai funerali per Patroclo, dopo che il corpo del defunto era stato arso su una pira funebre, volle che l’amico venisse onorato con un duello in armi tra i più illustri e valorosi guerrieri: Aiace Telamonio e Diomede Titide. I due si batterono con forza. Ma il pubblico, quando si accorse che Aiace era in difficoltà, pretese che il combattimento venisse interrotto. Probabilmente giunse invece al termine un analogo duello tra due coppie di soldati voluto dal generale macedone Cassandro in onore del defunto re Filippo III Arrideo (317 a.C.). Un secolo dopo (218 a.C.) – riferisce Tito Livio, gran spregiatore dei gladiatori a differenza di Seneca che invece li ammirava – Annibale per accrescere la combattività dei propri soldati li fece assistere a duelli di coppie di prigionieri catturati sulle Alpi ai quali aveva promesso, in caso di vittoria, la libertà. Trascorsero due anni e il grande cartaginese, dopo la battaglia di Canne, fece qualcosa di più. Quando il Senato romano respinse la sua proposta di riscattare con l’oro i prigionieri catturati, costrinse i malcapitati a combattere tra loro facendo in modo che si scontrassero padri con figli, fratelli con fratelli. Alla fine, ne rimase vivo uno solo. A quel punto Annibale lo fece «duellare» con un elefante promettendogli la salvezza ove mai ne fosse uscito vivo. Il superstite, riportano Fezzi e Rocco, riuscì ad abbattere persino il pachiderma. Ma ciò non gli valse comunque la vita dato che Annibale alla fine, violando l’impegno iniziale, «lo fece uccidere dai propri soldati».
Sembra, scrivono gli autori, che la tradizione gladiatoria vera e propria affondasse le sue radici italiche nei cruenti riti funebri diffusi tra etruschi e campani. In Campania, forse importati da terre più a sud, dalla Magna Grecia. Si diffuse tra il IV e il III secolo a.C. per poi conoscere un definitivo successo a Roma in epoca immediatamente successiva come documentano Christian Mann in I gladiatori (il Mulino), Federica Guidi in Morte nell’arena. Storia e leggende dei gladiatori (Mondadori) e Patrizia Arena in Gladiatori, carri e navi. Gli spettacoli nell’antica Roma (Carocci).
In ogni caso furono spettacoli di grande e crescente successo. Fin dall’inizio. Nel 160 a.C. quando il più famoso commediografo del tempo, Publio Terenzio Afro, mise in scena La suocera, lo spettacolo fu sospeso a metà della rappresentazione perché il pubblico abbandonò in massa il teatro: si era sparsa la voce che poco lontano stava per iniziare una battaglia tra gladiatori (forse in occasione dei funerali di Lucio Emilio Paolo). Secoli dopo (nel 197 d.C.), il teologo cristiano Quinto Settimio Fiorente Tertulliano descrive i combattimenti dei gladiatori come munera, cioè «servizi dovuti» in onore dei morti. Di che si trattasse e perché attirarono un pubblico sempre più vasto è ben spiegato da Sergio Rinaldi Tufi in Gladiatori. Una giornata di spettacoli (Quasar) e da Simone Pastor in Giochi di potere. I «munera» dalle origini alla romanizzazione delle province alpine e balcanico-danubiane (Gangemi International). Una volta, scriveva già Tertulliano, «in virtù della credenza che le anime dei defunti fossero rese propizie dal sangue umano, nei funerali si sacrificavano prigionieri o schiavi di bassa quotazione commerciale». Successivamente «si pensò di mascherare questa crudeltà con qualcosa di piacevole». Fu così che le persone individuate allo scopo – proseguiva Tertulliano – «dopo essere state nei limiti del possibile istruite alle armi, in misura sufficiente da imparare a morire», nel giorno stabilito per le esequie venivano mandate nell’arena. Spesso dovevano misurarsi anche con animali feroci. Nella tradizione delle venationes, introdotte forse nel 252 a.C. allorché, dopo una vittoria in Sicilia contro i cartaginesi, più di cento elefanti catturati ai nemici vennero fatti sfilare in una sorta di parata trionfale nel Circo Massimo. Dove poi alcuni giovani, armati di lance smussate, diedero loro la caccia. Nel 167 a.C. fu applicata a Roma per la prima volta la damnatio ad bestias: Lucio Emilio Paolo fece calpestare da elefanti un gruppo di disertori. I leoni entrarono in scena intorno all’80 a.C. ad opera del dittatore Lucio Cornelio Silla. Poi il numero delle bestie feroci introdotte nell’arena aumentò a dismisura. Venticinque anni dopo quella prima damnatio ad bestias, Marco Tullio Cicerone ebbe occasione di assistere – a seguito di cinque giorni di venationes con cinquecento leoni e quattrocento pantere – a un «confronto» tra uomini in armatura e una ventina di elefanti. I cui «strazianti barriti di dolore», riferiscono Fezzi e Rocco, «suscitarono la compassione del pubblico». Lo stesso Cicerone fu indotto a soffermarsi sul perché di quella compassione e a chiedersi se le belve avessero qualcosa in comune con l’uomo. Lo sterminio di quegli animali voleva essere, sempre secondo Fezzi e Rocco, una «dimostrazione tangibile del dominio esercitato da Roma sulle pericolose forze della barbarie e dell’irrazionalità». Comprese «quelle di una natura percepita come potente e minacciosa».
Da un certo momento in poi questi combattimenti nell’arena non furono più una prerogativa esclusiva di condannati a morte, prigionieri di guerra e schiavi. Un discreto numero di gladiatori, «all’inizio minoritario ma in seguito non trascurabile», furono cittadini romani che si offrivano come volontari. Non solo liberti ma anche «ingenui», cioè uomini liberi fin dalla nascita. In qualche caso appartenenti addirittura alle classi sociali più elevate. E, perfino, donne. Una di loro compare sia pure marginalmente nel Satyricon di Petronio. Altre figurano come partecipanti alle carneficine di animali allestite da Tito per l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio. Domiziano ne introdusse alcune travestite da amazzoni. Data la limitatezza e la genericità delle fonti, precisano gli autori, «non si esclude che i duelli al femminile fossero un intrattenimento leggero, mai mortale». Di certo le gladiatrici non combatterono mai contro gladiatori maschi. Comunque, intorno al 200 Settimio Severo – riferisce Cassio Dione – mise fine a questa partecipazione delle donne ai combattimenti gladiatori «per le grida indecenti e gli insulti cui esse si abbandonavano».
Per il I secolo d.C. è stato calcolato un tasso di mortalità di circa il 10 per cento. Però nei due secoli successivi il rischio di morire nell’arena crebbe fino a circa il 25 per cento. Pochi gladiatori sopravvivevano al decimo combattimento e oltre i vent’anni, quasi mai oltre i trenta. In età imperiale si formarono vere e proprie tifoserie riconosciute e organizzate a cui aderivano anche personalità di alto lignaggio.
Impossibile parlare dei gladiatori senza menzionare la rivolta capeggiata da uno di loro, Spartaco, che tra il 73 e il 71 a.C. spaventò Roma e lasciò una traccia indelebile nella storia della schiavitù. E delle ribellioni. Fu, quella di Spartaco, la terza rivolta servile dopo altre rimaste però circoscritte alla Sicilia (tra il 136 e il 132 a.C. e tra il 104 e il 100 a.C.). Dapprincipio sembrò che l’intenzione di Spartaco fosse quella di varcare le Alpi e far tornare le decine di migliaia di schiavi che si erano unite a lui, presso i rispettivi paesi, in Tracia e in Gallia. Poi parve che volesse marciare contro Roma. Infine, dopo sanguinosissime battaglie, la sua armata si diresse verso il sud del Bruzio, l’odierna Calabria. Probabilmente Spartaco voleva passare in Sicilia dove era in atto un inizio di rivolta. Fu infine sconfitto con onore. Scrisse Lucio Anneo Floro (nell’Epitome di Tito Livio) che lui e i suoi uomini «incontrarono una morte degna di veri uomini che sotto un comandante gladiatore combatterono senza remissione». Ma qui ci interessa un dettaglio. Spartaco, ai funerali del compagno Crisso (72 a.C.), fece combattere tra loro fino alla morte centinaia di prigionieri romani. La fonte principale di questa notizia, peraltro confermata da altri, è lo stesso Floro secondo il quale Spartaco «celebrò anche le esequie dei suoi generali morti in combattimento con funerali simili a quelli dei comandanti romani e fece gareggiare con le armi i prigionieri intorno al rogo». Quasi, prosegue Floro, «potesse espiare ogni passato disonore, se da gladiatore fosse diventato allora organizzatore di giochi gladiatori».
Il mito di Spartaco cominciò a diffondersi nella seconda metà del Settecento. Nelle Domande sull’Enciclopedia, Voltaire scrisse qualcosa su cui dovremmo fermare ancor oggi la nostra attenzione. Ricordò che «nessun legislatore dell’antichità ha tentato di abrogare la schiavitù». Anzi, «i popoli più entusiasti della libertà, gli ateniesi, gli spartani, i romani, i cartaginesi, furono quelli che partorirono le leggi più dure contro gli schiavi». Di più: «il diritto di vita e di morte su di essi era uno dei principii su cui si fondava la società». Talché «bisogna ammettere che, tra tutte le guerre, quella di Spartaco fu la più giusta». E, «forse», secondo Voltaire, «la sola giusta».
Voltaire era stato anticipato in questo genere di considerazioni da tre figure intellettuali di spicco sue contemporanee. L’avvocato e scrittore Bernard Joseph Saurin che nel 1760 ottenne un grande successo alla Comédie-Française con la tragedia Spartacus. Il magistrato filosofo Charles de Brosses nel 1768 presentò all’Académie Royale des Inscriptions et Belles-Lettres una memoria sulla Storia della Repubblica romana di Sallustio. Il drammaturgo tedesco Gotthold Ephraim Lessing che attorno al 1770 elaborò a sua volta un progetto di Spartacus.
In un clima sempre più critico della tratta atlantica degli schiavi, scrivono Fezzi e Rocco, si affacciò anche la profezia dell’avvento di uno «Spartaco nero». E, dopo breve tempo, la figura di Spartaco fu associata a quella di François-Dominique Toussaint Louverture (1743-1803) protagonista delle fasi centrali della rivoluzione di Haiti (1791-1804) che fu appunto «una lunga e complessa rivolta di schiavi, capace di portare infine, all’indipendenza dell’isola».
Ma, tornando ai gladiatori, Fezzi e Rocco notano che, se pure l’atteggiamento della Chiesa contribuì non poco allo spegnimento dell’entusiasmo nei confronti di questo genere di spettacolo, anche i primi imperatori cristiani non proibirono queste esibizioni. Del resto, affermano Fezzi e Rocco, una iniziativa del genere «avrebbe provocato grave malcontento tra le masse dei sudditi, avidi di divertimenti». A quel che si può storicamente accertare, «è più probabile che i combattimenti gladiatori siano stati a poco a poco, e con cautela, disincentivati». Con grande, grandissima cautela.