Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  novembre 04 Lunedì calendario

Intervista alla scritttrice Lorrie Moore


Guardando gli Stati Uniti dall’ultimo miglio della maratona di New York, è difficile credere che un’ideologia prevalentemente bianca, machista e bigotta possa prendere il sopravvento in queste serrate elezioni presidenziali. Sotto un sole che non scalda Manhattan, nella prima vera giornata fredda di quest’autunno, assiepati alle transenne, sostenitori di ogni colore tifano per i loro beniamini: il kenyota Evans Chebet, superato di un soffio dall’olandese Abdi Nageeye. Le due kenyote arrivate quasi appaiate, Sheila Chepkirui, prima, Hellen Obiri, seconda. I due americani – Daniel Romanchuk e David Weir – che hanno vinto la gara in carrozzina. All’arrivo e per tutto il percorso ci sono fiori, bandiere, cartelli di incoraggiamento. Un bambino cinese ne tiene alto uno coloratissimo: «Papà sei il miglior corridore del mondo». Corre il mondo, in effetti. Ed è il mondo intero a seguire la corsa.
Lorrie Moore è una delle più acute e irriverenti scrittrici americane. Adorata dalla critica, osannata per l’ultimo romanzo – Sono senza casa, se questa non è la mia – pubblicato in Italia dalla “Nave di Teseo”. Non è abituata a uno sguardo superficiale e avverte subito che New York non è solo questo. Tanto meno lo sono gli Stati Uniti. È nata e cresciuta a Glens Falls, «upstate New York, un luogo conservatore come pochi. I democratici tendono a dare questo Stato per scontato, e sbagliano. Così come hanno sbagliato otto anni fa a dare per scontato il Wisconsin, dove ho insegnato per anni: si tratta di luoghi molto più complessi di come vengono raccontati. Non sono in bilico da oggi, lo sono da molto molto tempo».
I diritti delle donne e le diseguaglianze, in parte ancora legate alla razza, sono due dei temi centrali di questa campagna elettorale. Vengono da lontano. E i democratici hanno aspettato un po’ troppo per affrontarli. «Quando ho letto per la prima volta Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood – spiega Moore – sapevo che non si trattava solo di una distopia. Atwood lo ha spiegato: tutto quello che ha scritto, sulla sottomissione delle donne, le mani del potere maschile sui loro corpi, stava succedendo da qualche parte nel mondo. Atwood è canadese, un Paese meno religioso del nostro, ha guardato l’America e ha detto: ecco, lì potrebbe succedere». Aveva ragione? «Aveva ragione. Perché la destra religiosa ha lavorato per vent’anni al rovesciamento della sentenza Roe versus Wade per mano della Corte suprema. Per vent’anni, ha cercato un modo per togliere alle ragazze e alle donne americane la libertà di scelta sui loro corpi e il diritto di abortire. I democratici, che avrebbero potuto fermarla, non l’hanno fatto. Ruth Bader Ginsburg avrebbe potuto dimettersi e fare in modo che Obama nominasse un democratico, ma non è successo. Perché abbiamo questa cosa assurda per cui i giudici della Corte suprema vengono nominati dai presidenti e possono restare al loro posto a vita». I liberal hanno sottovalutato quel che avrebbe potuto fare una Corte suprema a maggioranza fortemente conservatrice, non hanno spinto Bader Ginsburg al passo indietro prima che morisse così come non hanno spinto Biden a non correre per il secondo mandato, prima che fosse chiaro che la sua età e la sua salute non lo mettevano in grado di correre. «Paradossalmente – spiega Moore – a differenza della destra religiosa, i democratici sono incapaci di pensare nel lungo periodo».
Ma non c’è solo questo. Nel romanzo di Moore – che è insieme una storia d’amore, di morte e di fantasmi, ma anche una grande metafora di quel che sono oggi gli Stati Uniti – i temi trattati sono il cancro, il cambiamento climatico, Donald Trump (la storia si svolge in parte durante la campagna del 2016), le stragi nelle scuole. «Quando vengo in Europa si stupiscono nel sentirmi dire che quando andavo a scuola io, non avevo paura di essere uccisa. Questa cosa appartiene agli ultimi 25 anni, C’era stato un bando dei fucili d’assalto durante l’amministrazione Clinton che aveva migliorato le cose». Ma poi è arrivato Trump, sono stati liberalizzati di nuovo, e il Congresso non è stato in grado di tornare indietro da quella decisione. In un Paese in cui anche Kamala Harris e il candidato vicepresidente Tim Walz si sentono di rassicurare gli elettori “moderati” di avere un’arma anche loro, e di essere in grado di usarla se serve, questo potrebbe non sorprendere. «Ma non è sempre stato così». Anche questa, è una falsa narrazione. Dice Moore che lo «spirito confederato», quello che ha dato luogo alla guerra civile americana, aleggia ancora negli Stati Uniti. Spiega: «La Confederazione del Sud iniziò la guerra civile americana separandosi dagli Stati Uniti non appena Lincoln, essenzialmente un abolizionista, fu eletto presidente. La posizione della Confederazione era anti-federale e pro-statale, per i diritti locali. Soprattutto, per il diritto a possedere schiavi, il che rendeva la loro causa così immorale. Si definivano “ribelli” e anche il nord li chiamava così. L’urlo ribelle del sud – una specie di grido – era perfezionato tra i soldati confederati». Cosa c’entra con oggi è presto detto: «L’attuale partito repubblicano ha sostenuto gran parte di questo scetticismo nei confronti del ruolo del governo federale. In Europa sarebbe un po’ come se i singoli Paesi si opponessero all’Ue, uscendone e formando un’unione diversa contro l’Ue. Il popolo MAGA di Trump, continuazione del “Tea Party” di 15 anni fa, è un’estensione di questo spirito confederato, che ora non è solo nel Sud ma è sparso ovunque nell’America rurale e suburbana. Ecco perché sembra che la confederazione del diciannovesimo secolo sia ancora (150 anni dopo) viva e non pienamente presa in considerazione».Alla fine del romanzo, Moore scrive: «Niente finisce mai davvero». Si riferiva a questo. «Trump è davvero più un intrattenitore, un marito ricco di modelle e non un ideologo sincero, ma abbraccerà qualunque folla lo abbracci, è per questo che ha il movimento che ha. Pensi che abbia uno strano carisma? Sto cercando di andare fino in fondo e non riesco a capire perché. C’è qualcosa nella sua voce a cui ho sempre pensato che il suo pubblico rispondesse. Ma quest’ultima cosa con il microfono è stata uno shock anche per me». Nonostante questo, le fa più paura J.D. Vance. Perché è più colto?: «No, perché è astuto, mente più di Trump. E appartiene davvero alla destra religiosa, diversamente da Trump che è stato usato da quel movimento senza farne davvero parte. Vance potrebbe tranquillamente essere uno dei protagonisti dei racconti dell’ancella di Atwood. È per questo che mi fa così paura». —