la Repubblica, 4 novembre 2024
La storia di Gabor Adler, morto per la libertà
«Il tempo frantuma e poi disperde la verità e quel che rimane diventa leggenda, mito». Scriveva così Nuto Revelli quasi a voler giustificare l’urgenza che lo aveva portato, nel 1994, a pubblicare Il disperso di Marburg, un racconto indagine alla ricerca della misteriosa identità di un nemico lontano nel tempo: la leggenda del “tedesco buono” catturato e ucciso dai partigiani italiani nella primavera del ’44. Un militare tedesco esce tutte le mattine a cavallo dalla sua caserma in provincia di Cuneo, e gira per le campagne, parla con i bambini, offre sigari ai contadini. Un giorno il cavallo torna in caserma da solo: il cavaliere solitario non viene più ritrovato. Revelli si imbatte in questa storia negli anni ’70, ne rimane coinvolto, e dopo anni di indagini l’uomo avrà un nome, un battaglione, una famiglia, un passato. «Nel Disperso di Marburg – scrive Rossana Rossanda introducendo il libro – c’è un percorso interiore che si iscrive in una sorta di cartografia minutissima: le località, le distanze, i tempi, chi e per quanto tempo sostò in quei luoghi». E d’altra parte era stato lo stesso Revelli, qualche anno prima, ad affermare: “Mai come adesso è la storia minuta l’unica che mi appassiona"».
Operazione fondamentale già trent’anni fa. Ma davvero irrinunciabile oggi, perché gli uomini e le donne che hanno vissuto in prima persona anni sconvolgenti e decisivi per la libertà di tutti noi, uno ad uno, ci stanno lasciando per sempre. E così la reiterazione documentata del ricordo diventa risorsa preziosissima per non confondere vittime e carnefici, per non cancellare il confine tra il bene e il male.
Nel libro di Marco Patucchi ho ritrovato questo spirito di ricerca, con un doppio piano narrativo che affianca archivi e memoria, carte e testimonianze. Qualche anno fa, scoprendo e ricostruendo insieme a Raffaella Cortese sulle pagine di Repubblica, la vicenda del “Plotone perduto” (Quindici ragazzi italoamericani trucidati dai nazisti in Liguria nel 1944, dopo il fallimento di una missione di sabotaggio), Patucchi ha spiegato come la ricerca «si svolga in gran parte lungo sentieri invisibili. Poi il ricercatore emerge come un sub dopo una lunga permanenza in acqua: è spaesato, deve riprendere fiato e energie per raccontare cosa ha visto. Si siede sulla spiaggia deserta e guarda un orizzonte diverso da come lo aveva lasciato. Un lavoro senza fine, ma essenziale in questi anni di smarrimento della memoria, di strisciante ripresa di fascismi più o meno espliciti, più o meno consapevoli».Quando leggiamo della Seconda guerra mondiale sui libri, dei milioni di morti tra i militari e tra i civili, automaticamente immaginiamo le battaglie terresti, aeree e navali, gli sbarchi, le strategie dei generali, i bombardamenti, le distruzioni, la caduta delle città.
Pensiamo ai grandi numeri, alle masse, ai cambiamenti politici. Ma se a parlare sono le testimonianze dei nostri vecchi, allora intuiamo che la guerra, la più grande tragedia del Novecento, è fatta soprattutto di migliaia di piccole vicende. Storie di crudeltà, ma anche di pietà, di eroismo, di generosità. E quell’abisso di morti ha lasciato un purgatorio di vivi in pena che ancora aspettano, sperano, si cercano, per avere un luogo dove piangere il proprio caro, o anche solo per un grazie e un amen».
Gabor Adler, protagonista de La spia venuta dal nulla è una di quelle ombre riemerse dall’abisso del tempo perduto. Un altro Disperso di Marburg. Il dovere della memoria, dunque, ma in questo caso ancheuna sottintesa attualità della storia di un ventenne che, negli anni più tremendi del secolo breve, non ci pensa due volte a gettare il cuore oltre ogni paura e, anche se non obbligato da alcuna appartenenza nazionale – lui, ebreo, nato in Ungheria, passato anche per l’Italia nella fuga dagli esiziali razzismi di quegli anni, approdato infine in Africa – sceglie di arruolarsi nell’esercito inglese «per servire la causa degli Alleati», come si legge in uno dei documenti emersi dagli archivi britannici. E la causa degli Alleati non era altro che la lotta contro le dittature nazifasciste che avevano portato il mondo sull’orlo del baratro.
Ecco, confrontare le scelte e i sentimenti di un ventenne europeo di allora, con quelli dei nostri ragazzi cresciuti in un’era di pace e di benessere generalizzato, ci aiuta a ricordare la gratitudine dovuta alla generazione che seppe immolarsi sui campi di battaglia per garantire la libertà di ognuno di noi. E anche la vulnerabilità della democrazia che, lo dimostrano gli eventi del nostro tempo di ferro, non è una certezza acquisita per sempre, ma ha bisogno di una cura costante, di un impegno faticoso. Virtù civiche imprescindibili, che nell’emergenza più estrema sanno diventare resistenza.
La spia venuta dal nulla ci restituisce anche la “banalità del bene” che in quegli anni vedeva protagonisti uomini, donne, famiglie alle prese con la vita quotidiana nel contesto di una guerra mondiale: le testimonianze raccolte da Patucchi tra chi viveva a Roma durante l’occupazione nazifascista, sono preziosi viaggi nella macchina del tempo. Sembra di vederli i palazzi color pastello, ancora non oscurati da smog e fuliggine, il candore del marmo delle chiese, le vie meravigliose della città eterna, le poche automobili in circolazione, le donne in cerca di generi alimentari, i ragazzini comunque a giocare sotto lo sguardo raggelante dei soldati tedeschi.
Come abbiamo scoperto conoscendoci, le nostre famiglie – la mia e quella di Patucchi – allora abitavano nello stesso quartiere: Prati, confinante da una parte con il Vaticano e l’illusoria protezione del Papa, e dall’altro con l’inizio della campagna tappezzata dagli orti di guerra dei romani. Così, nel leggere certe testimonianze, sono tornato anch’io ai racconti dei miei nonni e dei miei genitori: piccoli e grandi episodi che, per loro, erano la normalità di ogni giorno e che, ripensati oggi, sembrano tanti, incredibili capitoli di un romanzo d’avventura.
E invece non è stato un romanzo. È la nostra Storia, che non dobbiamo e non possiamo dimenticare né disperdere. Mai. Come ripete Liliana Segre, piccola, grandissima donna sopravvissuta all’orrore di Auschwitz, che questa Italia irrisolta ed immemore costringe a vivere sotto scorta: «Io sono una delle pochissime ancora in vita, ma quando saremo morti tutti, non ci sarà più nessuno che potrà dire “io c’ero…”. Non ci sarà più niente». È contro questo oblio, oggi, che dobbiamo combattere.