Corriere della Sera, 4 novembre 2024
Intervista all’attrice Margot Sikabonyi
«Quando è esploso il successo di Un medico in famiglia, avevo 15 anni: arrivavano offerte dal cinema, il salumiere sotto casa non mi faceva pagare più la merenda… Ma io non trovavo gioia in niente. Appena ho avuto 18 anni, sono scappata, cercando qualcosa, non sapevo cosa. Sono andata a Parigi, poi a studiare Biologia Marina, lontanissimo, dall’altra parte del mondo. Le Hawaii, isole madri, fonti costanti di lava che esce dalla terra, hanno iniziato a parlarmi e l’essenza fortissima della natura ha cominciato a curarmi». Il «medico in famiglia», però, è andato a riprendersi Margot Sikabonyi anche laggiù. Per girare un’altra serie, poi, un’altra ancora. Nove in tutto. Aveva 14 anni quando ha iniziato e 31 quando è riuscita a dire basta, sfilandosi da quella fiction di Raiuno che faceva anche undici milioni di ascoltatori e che rese Lino Banfi nonno d’Italia e lei nipotina di una nazione.
Sui set, era arrivata undicenne. Dai set, è scappata per buona parte della vita. Ora, non più. Ma come abbia trovato pace e come sia finita sorridente e felice davanti a me nella sua casa milanese, mentre i due bambini sono a scuola e un gatto bianco le fa le fusa, e con un film appena girato e un romanzo sul senso della vita appena pubblicato, è una storia lunga, fatta di angeli e di sciamani, di lutti, lacrime e piccoli miracoli.
Su Instagram, c’è un video in cui racconta: «La gente dice: questa faceva l’attrice, mo’ insegna yoga e, non si capisce perché, parla di massimi sistemi, felicità, centratura, ma perché?». Che cosa risponde?
«Pure Luca Barbareschi, quest’estate, quando ha prodotto il film che stavo girando, mi ripeteva “ma allora che devi fa"? Insegnare yoga o fare l’attrice?”. Ma perché scegliere? Che poi: ogni attore deve fare un percorso olistico di centratura, se no, finisce in overdose in una stanza da solo. Vabbè, non voglio esagerare, però la centratura è vitale… Invece, sui social, mi criticano, dicono: che vuoi fare? Decidi cosa sei».
Ha fatto pace col fatto che, per tanti, sarà sempre Maria di Un medico in famiglia?
«Nel rapporto con lei, sono passata da “sono fighissima” a “voglio scappare”, poi, l’ho usata per capire chi fossi. Adesso, da madre divorziata, dopo l’inferno in cui sono passata, la adoro. Quando una ragazza mi dice “ho studiato medicina ispirata da Maria”, mi emoziono. Oggi, provo solo gratitudine».
«L’inferno» è stato crescere sotto gli occhi di milioni di italiani?
«Il momento più duro della mia vita è stato il divorzio, il castello della famiglia che crolla, prendersi la responsabilità di non fingere che va tutto bene. Ma anche il successo della serie non era stato facile da vivere: non mi sentivo all’altezza, avevo la sindrome dell’impostore. E non sempre volevo stare su quel set… Mio padre è morto mentre ero lì, avevo 15 anni, non vedevo gli amici perché non andavo a scuola e gli insegnanti venivano in camerino. Ad alcuni compagni ero diventata antipatica e altri, all’improvviso, volevano starmi intorno, ma in loro non sentivo verità. L’adolescenza già è terribile perché ti chiedi chi sei, io, in più, avevo il papà morto e un personaggio che dominava tutto».
Lei che bambina era stata prima di allora?
«Estremamente timida e insicura. Poi, un mese prima che uscisse il Medico in famiglia, papà è mancato. È stato un crocevia perché, mentre mi chiedevo cos’è la vita e cos’è la morte, sono finita nella nuvola del successo e ho visto che, in quella stanza di eletti, quasi nessuno era felice. Tutti mi dicevano “bella e brava”, ma era come se qualcuno mi avesse tolto le bende dagli occhi per dirmi: la vita è altro».
Padre ungherese, madre canadese: come si erano incontrati e come erano finiti a vivere a Roma, dove nasce lei?
«Papà era un geologo e stava lavorando in Canada quando ha conosciuto mamma, studentessa universitaria, in mezzo alle sue praterie. S’innamorarono seduta stante. Lui le propose di vivere a Roma, perché si mangiava benissimo e c’era sempre il sole. Vanno a Roma, dove nasciamo io e mio fratello, perché lì c’era il sole».
Come e perché inizia a recitare?
«Accompagno una persona a un provino, esce un’assistente ai casting e mi chiede se parlo inglese. Dico sì e loro cercavano un’undicenne che parlasse inglese per un film. Io scopro che recitare mi viene super facile. Inizio a lavorare senza sosta, faccio I ragazzi del muretto, Ardena al cinema, Caro Maestro…».
Quante cose ha fatto per la prima volta sui set invece che nella vita?
«Il primo bacio, traumatico, l’ho dato in Caro Maestro 2. Mi trovo davanti un ragazzo che non conosco, il regista fa: azione, forza, dai, su con questo bacio, sbrigati. Io: pietrificata. Sul set, mi sono innamorata per la prima volta. Di Pietro Sermonti, nel Medico. Infatti, sono caduta su Sermonti pure nella vita: sei anni tormentati, sul set e fuori. Giravo scene romantiche quando avrei voluto dargli capocciate. E sono diventata madre prima sul set che nella vita».
Quante volte è scappata da tutto questo?
«La prima, a 18 anni, per studiare recitazione a Parigi e vedere se ero veramente un’attrice. Mi sono diplomata prima della classe, ho trovato un agente lì, mi sono innamorata di un francese, ma arriva Carlo Bixio, il produttore del Medico, mi dice che devo tornare, insiste, dice “una stagione e basta”, poi, le stagioni diventano due, tre… Al che, ero proprio depressa, amavo recitare ma sentivo falso tutto il mondo che c’era intorno. Dico: vado a salvare i delfini. Alle Hawaii, trovo una casetta sotto un albero di mango, inizio a surfare ed è una medicina: l’onda lava via i pensieri. Stavo così bene che ho pensato di tornare in Italia e lottare per il sogno di fare l’attrice senza rifare il Medico, ma quella era una macchina fortissima e ci ricasco. Poi, scappo a Vancouver. Anche lì: ho fatto una scuola di cinema, ero la prima della classe, avevo girato un film, ma arriva Bixio. In carne e ossa. Dico al preside: ci parli lei, gli spieghi che resto qua. Ma Bixio invita il preside in Italia, gli offre il volo, il viaggio… Niente, torno. Poi, quando incontro il futuro padre dei miei figli, dico basta e, per andarmene, purtroppo, ho dovuto litigare con tutti».
Finalmente libera da Maria com’è andata?
«Quando resto incinta, ero in tournée in teatro e capisco che tutte quelle emozioni in scena non erano compatibili con una gravidanza. Dico: Ok, faccio solo la mamma».
Ha passato la vita a evitare di fare l’attrice.
«Ora, al contrario, dico: fatemi fare il mio lavoro. Ma non è facile: sono stata ferma tanto».
Perché, per l’editore Cairo, ha appena scritto «Lara vuole essere felice – Romanzo zen»?
«Perché il mio percorso non è solo mio: tutti cerchiamo la luce, anche se non tutti lo sappiamo. Io ho fatto un viaggio lunghissimo di yoga, di meditazione, di silenzi, di psicoterapia, ho preso anche una laurea in Psicologia. Quella di Lara non è la mia storia, ma di una donna come tante che si è illusa di trovare il marito giusto, la tata giusta, ha fatto tutto giusto, ma tutto è crollato e si è dovuta chiedere cos’era giusto e inoltrarsi in un percorso per capire che va bene anche imperfetta, che non è importante fare tutto giusto, ma essere connessa a se stessa, al suo corpo e alla natura».
Per capirlo, abbraccia alberi, incontra veri sciamani, finti guru e angeli. Quanto di tutto questo c’è nella sua vita reale?
«Il percorso più importante è stato quello yogico, che ha a che fare col respiro e arriva con la morte di mio padre, finché divento insegnante nel 2008. Alle Hawaii, ho incontrato i primi sciamani e, a Bali, ho fatto percorsi yoga che si incrociavano con lo sciamanesimo e la meditazione nei boschi. Poi, ho fatto tanta psicoterapia bioenergetica, che fonda la sua ricerca di verità sul corpo e sul respiro. Quando ero in crisi per il divorzio, ho incontrato una sciamana con la quale ho usato erbe e spezie per riequilibrare il campo energetico. Come per Lara, si trattava sempre di ritornare al corpo e usare la natura per sentire, e per ritrovare la possibilità di essere felice».
Che cos’è una sciamana?
«Una guaritrice in contatto con tutto quello che non si vede, ma c’è. C’è sciamanesimo e sciamanesimo, questo è pulito, “bianco”. Quindi, i rimedi sono: fai un bagno nei fiori di calendula; oppure, porta con te un sacchetto di lavanda…».
E funziona?
«Sì, se lasci che funzioni. Se resti legato alla mente razionale che dice “ma ti pare che un bagno di calendula mi può fare bene?” non succede nulla. Ma io ricordo bagni di calendula in cui ho avuto rivelazioni, visioni fortissime e ho sentito blocchi che si scioglievano. Dopo, dovevo scrivere cosa sentivo, scrivevo e piangevo».
E gli angeli del libro li ha visti?
«Questa storia degli angeli che ci aiutano l’avevo sentita varie volte e non ci avevo mai voluto credere: ho anch’io la mia mente razionale. Finché, nel mezzo del trauma della separazione, vivendo da sola in una Milano non mia con due bimbi, ho iniziato a entrare in chiesa, anche se non sono cattolica. Mi sedevo davanti alla Madonna, dicevo: tu hai sofferto, magari capisci la mia sofferenza. Ho iniziato a pregare senza sapere che stessi pregando, a mettermi in ginocchio perché non sapevo più stare in piedi. Una sera, uscita dalla chiesa, in cucina, ho sentito una presenza molto forte dietro di me. Mi viene da piangere a ricordarlo... Ho sentito un angelo che mi metteva le mani sulle spalle e mi proteggeva. Dopo, non sono più stata la stessa. Magari era la mia immaginazione, ma ha funzionato. Perché, se il solo pensiero ci fa stare bene, non possiamo pensare che gli angeli esistano? Li ho messi nel romanzo perché questo è un libro di luce e speranza, vorrei che chi lo legge possa sentire che, qualsiasi difficoltà stia affrontando, non è solo».
Cosa vede davanti a sé?
«Bimbi felici, il lavoro di attrice che riprende e io che lo sento profondamente mio, riuscendo a stare in quella finzione dando attenzione non a essere perfetta ma a essere centrata. Vedo Lara che diventa una trilogia e un film. Vedo la possibilità di usare il mio lavoro per portare luce».