La Stampa, 3 novembre 2024
Carlo Petrini e i due volti della sua Langa (prima parte)
Pubblichiamo la prima parte del reportage con cui Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, racconta come le Langhe sono cambiate e le sfide che questo territorio deve essere pronto ad affrontare. Nel prossimo weekend la seconda puntata.
Erano i primissimi anni Settanta quando, da giovane adulto, iniziai a immergermi nel mondo enologico. Si dice che il frutto non cada mai troppo lontano dall’albero. In effetti, nelle colline attorno alla mia città natale tutto parlava di vino. E se l’impulso venne naturale, fu attraverso la curiosità di approfondire il legame tra uomo e natura che ebbe inizio la mia carriera di gastronomo.
Dopo oltre 50 anni dalle prime esperienze, sono dunque tornato ad affacciarmi sul panorama enogastronomico delle Langhe per analizzare cambiamenti e sviluppi che, in questo periodo storico, sembrano accadere sempre più repentinamente anche dal punto di vista sociale.
Innanzitutto, debbo dire che questo viaggio ha rispolverato in me la memoria di molti incontri, volti, ed eventi che, in tempi non sospetti, hanno segnato la storia di questa zona di Piemonte, portandola a diventare una delle aree enologiche più importanti del mondo. Questo è bene evidenziarlo sin da subito.
Oggi, a portare avanti la variegata realtà produttiva di Langa, c’è una buona percentuale di giovani donne e giovani uomini: una piacevole sorpresa. Della maggior parte di loro avevo già conosciuto e intervistato i parenti. Altre testimonianze, invece, le ho raccolte tra chi non ha ereditato il mestiere dalla famiglia, ma nella produzione del vino ha deciso di investire per passione. Ecco, di tutte queste “nuove” cantine, sono pochissime quelle nate negli ultimi 20 anni. E qui sorge un primo aspetto per nulla irrilevante: negli anni Duemila, aprire una cantina in Langa è divenuta un’operazione il cui coraggio sfiora l’irragionevolezza.
Chi si sarebbe mai immaginato che il valore fondiario potesse aumentare così tanto, fino a diventare un vero e proprio vulnus? Oggigiorno, per acquistare un ettaro vitato di uva nebbiolo da Barolo possono servire fino a 4 milioni di euro (un valore immenso soprattutto se rapportato ai 4-5 milioni delle vecchie lire necessari nel 1970). Ne consegue che la Langa è divenuto un territorio esclusivo, dove le barriere all’entrata sono talmente insormontabili che risulta impossibile fare impresa senza indebitamenti da capogiro. Tutto questo, inoltre, rischia di attrarre un mondo che poco ha a che fare con l’origine agricola di queste zone e con l’artigianalità enologica: quello della finanza e dei grandi gruppi di investimento. Un pericolo che sradicherebbe l’autenticità del territorio e che avvicinerebbe drasticamente le bottiglie di vino ad altri tipi di commodities.
Riguardo a ciò, scambiando qualche opinione con il discendente di una delle più storiche famiglie di produttori, ho appreso che oggigiorno costa meno acquistare e ristrutturare uno dei castelli di Langa piuttosto che un ettaro nella zona del Barolo. Le sue parole non hanno potuto far altro che ravvivare in me il ricordo di un gigante del vino di Langa: Battista Rinaldi.
Forse in pochi sanno che Battista, padre di Giuseppe detto “Citrico”, nel 1970, durante la sua esperienza da sindaco del comune di Barolo, si impegnò – con una raccolta fondi a cui parteciparono molti cittadini e molte aziende vinicole del territorio – ad acquistare il castello Falletti di Barolo, allora in disuso da oltre un decennio. Il fine ultimo era ridare vita al maniero simbolo della piccola cittadina, mettendolo a disposizione della collettività. A quel tempo il costo dell’edificio era di 33 milioni e mezzo di vecchie lire, vale a dire l’equivalente odierno di 345 mila euro. Insomma, se Battista sapesse che oggi gli sarebbe bastato vendere una manciata di filari per portare a termine quell’encomiabile operazione, riderebbe di gusto; non nascondendo però un fondo di grande preoccupazione per come sono evolute le cose nelle sue amate Langhe.
Questa sarebbe la reazione di molti di quei protagonisti che hanno saputo rendere grande la Langa. Persone che hanno vissuto periodi estremamente difficili. Penso in particolare a tutti coloro che, a cavallo tra XIX e XX secolo, per oltre 70 anni sono stati costretti a combattere tre grandi malattie – oidio prima, peronospora e infine la fillossera – che hanno rischiato di cancellare la viticultura in queste zone e che hanno generato massicci flussi migratori verso le Americhe.
Ma penso anche a chi, arrivando dal tempo de la malora di fenogliana memoria, tra gli anni ’60 e ’90 del secolo scorso ha saputo trainare il mondo contadino dei vignaioli verso il ben più florido status di produttori di vino.
Al contempo, si è realizzata una divaricazione del valore fondiario rispetto alle aree confinanti. Se, come già detto, un ettaro in Langa può arrivare a costare fino a 4 milioni, nel vicino Roero e nell’adiacente Monferrato (a pochissimi km di distanza) il costo di un ettaro vitato è decine e decine di volte inferiore. Non solo il valore, anche la superficie vitata è andata incontro a un notevole aumento negli ultimi anni. Si è infatti passati da 5 mila ettari vitati nel 1970, ai 10 mila di oggi. Eppure, a sentire alcuni ragionamenti, sembra che questi non bastino mai. E, quindi, via a pensare a come ampliare le zone, a disboscare, il tutto finalizzato al solo aumento della superficie produttiva.
Alla luce dei crescenti effetti speculativi, voglio riportare l’esempio di un’altra zona di grande eccellenza vitivinicola, forse quella con maggiore storia alle spalle, che è ancora alle prese con una crisi in cui anche gli aspetti identitari sono venuti meno. Mi riferisco al bordolese, dove l’inacessibilità del valore del terreno e del costo delle bottiglie – dettata specialmente dai Premiers Crus – hanno fatto collassare un sistema che era arrivato allo stremo della speculazione. Il risultato: oggi, con non pochi malcontenti, il mercato si sta riassestando al ribasso. Si è dovuti passare attraverso pesanti manovre di assestamento, compresa l’espiantazione di ettari interi di vigna.
Le dinamiche sin qui riportate, questo è giusto sottolinearlo, rappresentano davvero un unicum del panorama agricolo, non solo italiano, ma mondiale. L’allure che ruota attorno al mondo del vino, accompagnata da profitti medi nettamente superiori a quelli della stragrande maggioranza delle colture, rendono fortemente attraenti i territori come le Langhe.
Ed è anche per questo motivo se in queste regioni c’è un maggiore interesse da parte delle giovani generazioni per l’agricoltura. Se da un lato, però, la politica e i numerosi istituti bancari di territorio, che eppure esistono e rigogliano, non hanno mai sviluppato una filosofia volta a creare crediti agevolati per facilitare l’ingresso di nuovi giovani appassionati nel settore. Durante gli incontri con i produttori più giovani, mi è anche parso evidente che la trasmissione della storia locale è stata a un certo punto recisa, e che la scuola su questo fronte si trova del tutto impreparata.
Questo piccolo areale di circa di 200 km², dunque, non ha sempre vissuto di agiatezza. Al fine di comprendere il successo che ha la Langa oggi ritengo sia necessario sviluppare un alto grado di consapevolezza di cosa è stato prima. Questo fa parte dell’avere cura del territorio.
Proprio per questo motivo, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo negli ultimi due anni ha voluto organizzare degli incontri rivolti a giovani under 30 per ripercorrere le tappe fondamentali della storia recente di questo territorio e per seminare in loro, oltre la consapevolezza, anche la curiosità su cosa è avvenuto prima. Nelle due edizioni di “Se la Langa è così” (questo il titolo degli eventi), sono passati circa mille giovani che, per vari motivi, vivono in questo territorio. Il risultato è stato estremamente sorprendente, perché l’apprendimento delle vicende che hanno caratterizzato la Langa nel corso degli ultimi due secoli è risultato essere anche un validissimo strumento di aggregazione. Appuntamenti come questi devono essere implementati, perché attraverso il dialogo e la condivisione è possibile rinvigorire un senso comunitario che, insieme alla perdita della memoria, si è ahimè drasticamente affievolito.
A fronte di un valore dei terreni dopato e della speculazione sulle bottiglie, ho infatti potuto toccare con mano che la comunità si trova molto impoverita, non riconoscibile rispetto alla vita di Langa di una volta. Ciò rende evidente che l’eccessiva ricchezza privata riduce la prosperità pubblica. Quello che per molto tempo ha reso vivo e attraente questo angolo di Piemonte, ancor più del vino, era l’approccio di condivisione e la socialità che si poteva respirare in ogni angolo di paese. I bar, le botteghe, le osterie, tutti i luoghi in cui la comunità si ritrovava sono spariti e con loro anche forti tratti identitari. Dirò di più, il mondo enologico era perfettamente integrato a quel modello sociale, mentre oggi il divario che vige tra comunità e comparto produttivo è fin troppo evidente.La rigenerazione delle forme comunitarie dovrebbe.
rappresentare oggi la prima priorità per chi vive i vantaggi di questa Langa. È bene essere consapevoli che, se in altre zone di provincia lo spettro dello spopolamento è davvero reale, qui esiste la fortuna di poter godere di una qualità della vita ben diversa da quella dei grandi centri urbani. Dobbiamo quindi utilizzare la fantasia per ricreare nuove forme di socialità, più moderne e inclusive. Solo così si potranno preservare anche quegli agi più materiali, che da soli non possono generare la felicità nell’essere umano.
Ai giovani che oggi si trovano a gestire imprese vitivinicole in questo areale, dico di essere orgogliosi di questo privilegio. Allo stesso modo, esorto loro ad adottare una sana gestione del limite per preservare al meglio quel valore inestimabile che hanno ereditato. Mi sto riferendo alla cultura e alla storia di questo territorio, che rappresentano la vera ricchezza delle Langhe. Ho avuto le prove che alcuni lo hanno già compreso.
E per il turismo? Il concetto non cambia. Ogni anno si è in trepidante attesa di sapere a quanto ammontano le presenze nel periodo di alta stagione, con la bramosia di superarle sempre più. Stiamo parlando di un piccolo territorio con delle infrastrutture non adatte ad un flusso immane di mezzi e persone. Anche per questo settore, dunque, ho potuto appurare che in Langa la logica del limite è ancora ben lontana dall’essere attuata.
Ecco che la domanda sorge spontanea: ma di turismo si può anche morire? A giudicare da come l’overtourism stia modificando i connotati dei paesi la risposta è senz’altro sì.(1/ Continua)