Robinson, 3 novembre 2024
Quando Stalin telefonò a Pasternak, secondo Kadare
Sabato 23 giugno 1934 squilla il telefono nella casa moscovita di Boris Pasternak, dall’altro capo c’è Stalin in persona e ha una domanda per lui. Il capo assoluto del Cremlino, della Russia, del mondo sovietico, lo spietato uomo di potere che ha in mano vita e morte di tutti i russi irrompe nella vita privata dello scrittore, dell’uomo di pensiero, di uno dei più amati poeti della sua epoca per sfidarlo a una sorta partita a scacchi di tre minuti, una partita che, diciamolo subito, Pasternak è convinto di aver perso, perché nello scontro diretto tra l’uomo di potere e l’uomo di intelletto, quest’ultimo è destinato a soccombere. La sua vittoria arriva dopo, col tempo, perché la poesia ha vita più lunga della politica.È proprio sullo scontro tra politica- poesia che si incentra l’ultimo romanzo di Ismail Kadare, Quando un dittatore chiama, tradotto dal francese per La nave di Teseo da Cettina Caliò. Kadare (scomparso nel luglio scorso), nato e cresciuto in Albania e dal 1990 rifugiatosi in Francia in opposizione alla dirigenza comunista, è stato più volte candidato per il Nobel. Pasternak il premio lo aveva vinto nel 1958, due anni prima della sua morte, e gli aveva causato non pochi guai in quantolegato principalmente alla pubblicazione in Europa del suo primo e unico romanzo, Il dottor Živago, che raccontava i lati oscuri della Rivoluzione di ottobre. Rifiutato da tutti gli editori russi, il manoscritto riuscì rocambolescamente a superare i confini per giungere com’è noto nelle mani di Giangiacomo Feltrinelli, che lo pubblicò per la prima volta in Italia nel 1957, aprendo così la strada alla sua diffusione in Occidente, dove divenne simbolo della critica alla situazione russa.Anche la vicenda del Nobel assume tinte da spy story: Pasternak spera fino all’ultimo che il prestigioso riconoscimento vada invece a Moravia, anche lui in lizza. Poi, all’annuncio ufficiale della vittoria, in un primo momento accetta con gratitudine, ma subito dopo, temendo l’espulsione dalla Russia e possibili ritorsioni sui suoi cari, comunica all’Accademia di non poter accettare, non si recherà mai a Stoccolma per ritirare il premio. Sarà suo figlio Evgenij a farlo al posto suo, simbolicamente, nel 1989, a ideale risarcimento di quell’ingiustizia. Anche in quell’occasione dunque fu il potere a vincere, o almeno così sembrerebbe. Eppure, i dittatori passano e le opere restano, segno tangibile della permanenza della poesia nel mondo.I rapporti di Pasternak con il sistema sovietico furono definiti “amletici”, né di aperto consenso né di evidente dissenso, e quella famosa telefonata del giugno 1934 è sineddoche di questo atteggiamento. Kadare la ricostruisce nei minimi dettagli, orchestrando una strategia di accerchiamento della verità, la quale, come spesso accade nelle questioni legate alla politica, è difficile da decifrare. Per farlo, mette in scena ben tredici versioni di quel dialogo tra il poeta e il dittatore. Davanti a un immaginario tribunale della Storia passano personaggi dell’epoca più o meno noti, da Isaiah Berlin ad Anna Achmatova, dalla moglie di Pasternak alla sua amante. Ogni versione differisce per alcuni particolari ma quello che le accomuna tutte è la risposta quasi afasica dello scrittore di fronte alla richiesta del politico. «Che cosa ne pensi di Osip Mande-l’štam?», domanda Stalin senza altriconvenevoli. Lo scrittore sa che in quei tre minuti si giocano il suo futuro, la sua libertà, la sua stessa vita forse. Che dire, che cosa rispondere? Spendere parole di lode per il poeta in questione rischiando di finire arrestato anche lui, oppure rinnegare l’amico e salvarsi?Pasternak esita qualche secondo di troppo, cerca di svincolarsi dalla morsa dicotomica di quella richiesta. La violenza di Stalin è in ogni suo gesto, in ogni parola. Anche nel gioco sadico di stringere attorno al collo di uno dei poeti russi più amati il nodo gordiano del dubbio. Pasternak si trova davanti al dilemma del prigioniero, e perde. Perde perché la dittatura è un gioco a perdere e non concede via di scampo alle menti libere. E infatti Stalin lo umilia con una risposta che non ammette replica, gli rinfaccia a muso duro che avrebbe potuto spendersi di più per un suo amico, dopo la linea cade e quella voce scompare per sempre. Scompare anche la linea telefonica, fatta attivare, così sembra, per quell’unica telefonata, come in un apologo kafkiano.Kadare riporta tutte le testimonianze su quella telefonata e in filigrana in ogni pagina dietro il poeta russo compare lui, lo scrittore albanese, che ha subìto la stessa sorte, che ha dovuto sostenere la sua partita contro il potere e ha perso anche lui, lasciando il proprio Paese e vivendo da esule. Compare, in questa indagine sul potere e sulla libertà, ogni voce di intellettuale che il potere ha tentato di smorzare con l’intimidazione, con la violenza, con la censura, con l’insulto, ogni voce di ieri e di oggi costretta a misurare la propria integrità con la solitudine di fronte a un potere totemico e ottuso. Una vicenda che Kadare racconta da letterato e indaga da poeta, senza condanne né assoluzioni, «perché, a differenza del tiranno, l’arte non aspira alla compassione. La offre, semplicemente