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 2024  novembre 03 Domenica calendario

Khalid Albaih, l’artista sudanese in mostra a Brescia


Khalid Albaih disegna il mondo e le sue ferite. E lo fa con uno stile essenziale, inconfondibile. Che dà ancora più forza a un gesto che, inevitabilmente, è anche politico. Le sue opere sono state esposte in diversi Paesi, le sue vignette sono state pubblicate da importanti media internazionali, ha pubblicato libri. Ma la sua fama la deve soprattutto alle piazze, da quelle delle Primavere arabe, nel 2011, a Black Lives Matter, e molte altre ancora: piazze reali e virtuali, in cui internet e i social media hanno giocato un ruolo fondamentale nell’amplificare spazi di libertà e creatività, in cui arte e attivismo diventano una cosa sola.
Khalid Albaih è vignettista e artista multimediale, passaporto sudanese e vita da esule, interprete e ispiratore di tanti giovani che dalla Tunisia all’Egitto, dal Sudan allo Yemen hanno provato a scardinare regimi liberticidi. Ma nel suo peregrinare per il mondo – è nato in Romania, cresciuto in Sudan, ha lavorato in Qatar, è vissuto in Danimarca, è stato ospite in America, per poi stabilirsi in Norvegia – ha dato voce e immagine a tante battaglie per i diritti civili e la libertà di espressione. La sua è una produzione vastissima, cominciata con la creazione dalla pagina Facebook Khartoon! – una crasi di cartoon e Khartoum, capitale sudanese – su cui ha pubblicato vignette e disegni spesso divenuti virali, e proseguita con molti progetti internazionali. Sempre dentro e fuori internet.
Ora l’articolato percorso artistico di Khalid Albaih viene proposto per la prima volta in Italia in una mostra personale che si inaugura venerdì 8 novembre al museo di Santa Giulia a Brescia, La stagione della migrazione a Nord. Anche in questo caso, l’immagine scelta è, al tempo stesso, essenziale e potente: un Cristo nero che emerge – o affonda – nelle acque del mare con l’aureola formata dalle stelle della bandiera dell’Unione Europea.
Khalid Albaih, che cos’è arte e che cos’è attivismo nel suo lavoro?
«Mi ci è voluto molto tempo per definirmi un “artista”, perché penso sia una parola troppo carica di significato. E poi, per noi, in Sudan, l’arte è vista come un privilegio, è qualcosa che allontana dalla realtà. Per questo preferisco definirmi un vignettista. Corrisponde di più a quello che voglio fare e che cerco di comunicare. Dopodiché penso che l’arte sia in ogni cosa, anche nell’attivismo. Non credo si possano distinguere. Almeno per me».
Un «rivoluzionario virtuale». Si riconosce nella definizione?
«Ai tempi del regime di Omar el Bashir, in Sudan, l’unico spazio di parola e di libertà era quello online. Ed era è il solo in cui esistevo anche come artista. Ma da lì, il mio lavoro arrivava nei luoghi in cui la gente si batteva contro varie forme di ingiustizia. Questo ha creato una grande ondata di cambiamento. Io sentivo di farne parte e ciò mi ha dato la forza di continuare. Internet ha offerto a me e ad altri lo spazio per parlare, per incontrarci, per espanderci: una piazza pubblica. Quindi sì, in un certo senso, sono un “rivoluzionario virtuale”, perché la rete è l’unico luogo in cui posso esserlo».
In questi ultimi anni, tuttavia, sembra essere un po’ «uscito» dal web...
«Internet è incredibile, o lo era, e ha un grande potere, ma è pieno di spazzatura. Anche l’approccio è cambiato. La gente non fa altro che “scrollare” e basta. Quindi volevo fare qualcosa che facesse fermare le persone almeno per un secondo, che desse la voglia di mettere in discussione il contenuto. Quello che vedo oggi è che tutto viene ridotto al minimo: video di pochi secondi che hanno la pretesa di spiegare tutto. News che diventano come cartoon. Ma se tutto è trasformato in una sorta di vignetta che senso ha continuare a fare vignette? Quindi ho iniziato a usare altri strumenti, che mi permettono di aggiungere dettagli, sfumature, complessità. Ora disegno, scrivo, realizzo video e installazioni... Non ho lasciato Internet, ma sperimento modalità diverse e multimediali».
Perché il tema delle migrazioni per questa mostra?
«Mi è stato proposto dalla curatrice Elettra Stamboulis che conosce bene il mio lavoro. E, in effetti, è un progetto in cui mi sono immediatamente riconosciuto già a partire dal titolo, che è lo stesso, La stagione delle migrazioni a Nord, di un rilevante romanzo post-coloniale del sudanese Altayib Salih. E non tanto perché io stesso vivo questo migrare sempre più a Nord. Ma perché credo sia importante indagare e capire le cause profonde che spingono le persone a partire e anche provare empatia, che è un’altra chiave importante del mio lavoro».
Nella mostra ci saranno anche alcune installazione site specific. Di che cosa si tratta?
«Sono lavori a cavallo tra memoria personale e messaggio universale, realizzati a partire da tre parole della mia terra, re-immaginate attraverso installazioni. La prima è toub, ovvero i grandi tessuti colorati delle donne sudanesi. La seconda è haboba, che significa “nonna”, ma in senso più ampio dice quello spazio accogliente fatto di legami e affetti, che oggi la guerra sta cancellando. La terza è camp e si riferisce proprio a un campo profughi, dove però si crea la possibilità di un ascolto vero delle storie».