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 2024  novembre 03 Domenica calendario

Intervista ad Anne Applebaum sulla società degli autocrati

Non un’alleanza politica o militare di vecchio stampo, ma «un network di Paesi che hanno iniziato opportunisticamente a collaborare e che hanno un nemico comune: noi, il mondo liberale e democratico». Corruzione, sorveglianza, disinformazione, violenza, le armi che spesso condividono, agendo non come una coalizione formale ma piuttosto come una società per azioni, un «agglomerato di aziende tenute insieme non dall’ideologia, ma da una spietata e assoluta determinazione a preservare potere e ricchezza».
«Autocrazia S.p.A.» chiama questa sfuggente quanto feroce compagine Anne Applebaum, proponendo un’utile chiave di lettura dello scenario globale in cui siamo immersi (e suggerendo anche delle contromosse). Lo fa nel volume Autocrazie. Chi sono i dittatori che vogliono governare il mondo, in arrivo il 12 novembre da Mondadori e al centro del dibattito anche alla recente Fiera del libro di Francoforte? Qui la giornalista e saggista premio Pulitzer, americana naturalizzata polacca – suo marito è Radosław Sikorski, conservatore liberale tornato ministro degli Esteri nel governo di Donald Tusk —, è stata anche premiata con il Friedenspreis des Deutschen Buchhandels, il prestigioso premio per la Pace degli editori tedeschi. Di guerra e pace, autocrazia e democrazia, finanza e tecnologia, l’autrice parla via Zoom con «la Lettura» alla vigilia di un appuntamento cruciale come le presidenziali Usa del 5 novembre.
Chi fa parte di Autocrazia S.p.A.? E come si comportano i «soci»?
«All’interno di questo gruppo convivono ideologie diverse: il comunismo cinese e il nazionalismo russo, il socialismo bolivariano del Venezuela, la dottrina del juche della Corea del Nord, il radicalismo sciita della Repubblica islamica dell’Iran... Ne fanno parte questi Paesi e qualche altra decina di Stati che non condividono per forza le stesse convinzioni ma hanno interessi simili e si aiutano per difenderli, in primo luogo per preservare il potere. Quindi accade, ad esempio, che le aziende corrotte e controllate dallo Stato in una dittatura facciano affari con quelle di un’altra. Oppure che questi Paesi si scambino tra loro tecnologie di sorveglianza e tattiche di repressione, che si aiutino nelle guerre. Basti pensare alle munizioni nordcoreane e ai droni iraniani forniti alla Russia impegnata contro l’Ucraina. A unire i membri di Autocrazia S.p.A. è anche un nemico comune: il mondo liberaldemocratico con il suo linguaggio dei diritti e della trasparenza. Un linguaggio che è anche quello degli oppositori interni alle stesse autocrazie, le quali sentono sempre più il bisogno di respingerlo non solo nei loro Paesi ma in tutto il mondo».
Lei sottolinea che non siamo di fronte a una nuova guerra fredda. Quali le differenze tra ora e allora?
«La prima è che non esiste alcuna divisione geografica. Non c’è un Muro di Berlino con la democrazia da una parte e la dittatura dall’altra. Non è tutto bianco o nero. Esistono ad esempio democrazie illiberali ben felici di promuovere le idee di Russia e Cina, così come autocrazie più morbide che vogliono cooperare con l’Occidente. E anche all’interno della stessa Europa e degli Usa, i sostenitori dello stato di diritto convivono con chi cerca di indebolirlo. La seconda differenza è che oggi la componente finanziaria è molto rilevante. Gli autocrati sono ricchissimi. Per loro potere e ricchezza vanno di pari passo e averli entrambi è fondamentale».
Nel libro denuncia un «moderno matrimonio tra cleptocrazia e dittatura».
«L’esempio più clamoroso è Vladimir Putin. Nei primi anni Novanta iniziò la carriera politica rubando denaro alla città di San Pietroburgo, di cui era vicesindaco. Lo riciclava fuori dal Paese, per poi riportarlo dentro e arricchirsi. Da lì in avanti, la Russia putiniana sarebbe nata come prodotto di ex membri del Kgb e delle parti più corrotte della finanza occidentale. Uno dei motivi per cui i dittatori sono così ansiosi di mantenere il potere è che vogliono conservare il proprio denaro. Più diventano ricchi, più si oppongono alla libertà di stampa, a indagini legali, alla trasparenza, anche per la necessità di nascondere l’origine dei loro soldi».
Lei chiama in causa l’«amorale mondo della finanza internazionale». Ci sono altre responsabilità dell’Occidente?
«C’è stata una fase, negli anni Novanta e oltre, in cui vigeva l’idea che l’economia fosse totalmente separata dalla politica. Emblema di tutto questo, in tempi più recenti, il sì della Germania al gasdotto Nord Stream 2, nonostante fosse già stata invasa la Crimea. I tedeschi ne parlarono come di una decisione solo commerciale, ma affari e politica non sono così facili da separare».
L’Occidente ha sottovalutato anche l’uso distorto che le autocrazie fanno delle nuove tecnologie di comunicazione?
«La Russia e la Cina, ma anche altre autocrazie, hanno capito presto quanto fosse facile manipolare le informazioni nell’epoca di internet. Da un decennio i russi usano la Rete e l’anonimato per acuire rabbia e divisioni nelle nostre società. D’altra parte, già nell’era sovietica venivano diffuse storie false. Negli anni Ottanta, ad esempio, l’Urss volle far credere che il virus dell’Aids fosse stato creato dalla Cia e si servì di giornalisti amici per diffondere la sua teoria cospirazionista. Ci vollero comunque anni. Ora basterebbero poche ore. In Occidente all’inizio si è creduto che internet avrebbe ampliato la conoscenza e rafforzato la democrazia. C’è da dire che in effetti la Rete non era in origine quella di oggi. Sono state soprattutto le grandi piattaforme dei social network, dove si può controllare ciò che gli utenti vedono, a cambiare le cose».
Alla Buchmesse, ai giornalisti che le chiedevano se anche l’Italia stesse diventando un’autocrazia, lei ha risposto: «Non ancora». Come vede il nostro Paese?
«Quella voleva essere in parte una battuta. Non sono in Italia, non ne scrivo, non posso essere molto precisa sulla vostra situazione politica. Quello che mi sento di dire, in generale, è che oggi la maggior parte delle democrazie fallisce non perché c’è un colpo di Stato o interviene l’esercito o viene assassinato il presidente. Ma perché i partiti al potere decidono di prendere il controllo delle istituzioni, di indebolire i media e il sistema giudiziario, di sostituire chi è esperto con chi è fedele... L’ho vissuto in Polonia. Abbiamo avuto un partito (Diritto e giustizia, di estrema destra, ndr) che per otto anni ha provato a farlo. Tuttavia l’anno scorso si è votato ed è stato sconfitto, nonostante abbia usato ogni mezzo illecito per vincere. Finché un’elezione democratica è possibile e i voti sono conteggiati in modo equo, sei ancora in una democrazia. Ma è legittimo protestare se un partito al potere inizia a minare il sistema».
A Francoforte l’Italia ospite d’onore è arrivata divisa, con autori importanti fuori dalla delegazione ufficiale. Tra loro, Roberto Saviano, che ha assistito alla cerimonia del Premio per la Pace.
«Non conosco i dettagli. Ciò che posso dire è che l’attuale esperienza degli italiani – quella di vivere in una società polarizzata, in cui le persone hanno visioni completamente diverse della verità, arrivando a disprezzarsi – mi sembra la stessa che abbiamo vissuto in Polonia con Diritto e giustizia e la stessa che stanno vivendo gli Stati Uniti».
Il 5 novembre si tengono le presidenziali americane. Come cambierà lo scenario globale a seconda di chi vincerà?
«Donald Trump è interessato solo a sé stesso, al suo potere. Ci sono un paio di idee che ripete da lungo tempo: che gli piacciono i dazi e non gli piace la Nato. Ma, a parte questo, non ha un’ideologia, perciò è imprevedibile. Di certo non sarà il leader di una grande alleanza democratica che si opporrà alle autocrazie. È una differenza fondamentale rispetto a Harris, che invece si vede come leader del mondo democratico, parla della necessità di avere alleati e di collaborare con altri Paesi».
Lei ha ricevuto il Friedenspreis. Vede qualche speranza di pace in Ucraina e in Medio Oriente?
«In Ucraina la guerra finirà quando i russi smetteranno di combattere. Poi, che questo accada perché sono stati sconfitti militarmente, perché sono in crisi economica o per la pressione su Putin in patria, poco importa. Oggi il leader russo pensa ancora di poter vincere: se non proprio catturando Kiev militarmente, conquistando in qualche modo l’Ucraina, ad esempio influenzandola o decidendo chi la gestisce. Con queste premesse, negoziare è impossibile».
Che cosa pensa dei gruppi pacifisti che chiedono di non inviare armi all’Ucraina?
«Diventano movimenti filo-russi. Se non vuoi dare armi all’Ucraina, di fatto finisci per essere d’accordo che la Russia la occupi, che chiuda gli ucraini nei campi di concentramento, che li torturi, che li costringa a non usare la loro lingua, che rapisca i loro figli. Se non armi l’Ucraina, non fermi la guerra, aiuti semplicemente i russi a vincere. L’approccio al pacifismo dipende da come e dove lo applichi. Se lo si intende nel senso generale che la guerra è un male e va evitata, mi trovo d’accordo: nessuno dovrebbe iniziarne una. Quello tra Russia e Ucraina, tuttavia, è un conflitto già in corso in cui i russi stanno cercando di occupare e distruggere l’Ucraina. Piuttosto, in questo caso appoggerei un pacifismo in Russia che chieda di smettere di combattere».
Quale invece l’orizzonte per il Medio Oriente?
«Qui la situazione è più difficile. C’è la crisi Israele-Palestina, ma anche il ruolo dell’Iran, che sponsorizza sia Hezbollah in Libano sia Hamas, responsabile dell’orribile attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele. Se si potesse convincere quest’ultimo a fermare i combattimenti a Gaza, cosa che vorrei facesse, resterebbe comunque la questione dell’Iran. E se si convincesse l’Iran a cambiare politica, avremmo ancora il conflitto israelo-palestinese. A questo proposito, in passato sono state siglate intese, ridisegnati confini, ma per una serie di ragioni, di recente soprattutto per colpa di Israele, questi accordi continuano a disintegrarsi. È necessario trovare un modus operandi per creare uno Stato palestinese con cui gli israeliani possano convivere, ma è un obiettivo che oggi appare lontano».
Nel finale del libro propone alcune idee per combattere le autocrazie.
«Innanzitutto, servirebbe pensare in modo diverso alla cooperazione internazionale. L’Onu, un’istituzione del XX secolo, non è efficace. Dovremmo piuttosto creare alleanze su temi specifici che stanno a cuore alle persone. Uno potrebbe essere la lotta alla cleptocrazia. Se ci fosse un gruppo di Stati disposto a lavorare insieme, si potrebbero eliminare le società di facciata e rendere difficile nascondere denaro nei paradisi fiscali. Qualcosa di simile si potrebbe fare per regolamentare internet. Ovviamente non nel senso di una censura ma per dare alle persone il controllo dei propri dati, fornire informazioni su come funzionano gli algoritmi, porre fine all’anonimato in alcune parti del web, correggere un sistema di pubblicità e guadagni che puntano su emozioni, rabbia, estremismo».
«Autocrazie» è dedicato agli ottimisti. Si può ancora esserlo?
«Certamente. Conosco persone che vivono in Russia, in Venezuela, in Iran, ma che provano a reagire. Se si può essere attivisti per la democrazia in quei contesti, noi che viviamo in società aperte e prospere, non abbiamo il diritto di essere pessimisti».