Corriere della Sera, 3 novembre 2024
Bisio tra show flop e battute col Cavaliere
Claudio Bisio, prima il teatro, poi il cinema e la tv, adesso anche un romanzo.
«Il talento degli scomparsi parla di Marco e Mirko, due attori. Uno è famoso e vorrebbe sparire, il secondo è ignoto e smania per sfondare».
Lei è famoso.
«Così dicono».
Quali sono i guai del successo?
«Che potresti perderlo».
Ma nel libro ci sono anche personaggi che a un certo punto si ritirano. Chi si mette a meditare, chi raggiunge una colonia di nudisti.
«Non mi guardi come se anche io mi stessi incamminando in quella direzione».
E però...
«E però, è vero, ogni tanto mi viene la tentazione di fermarmi. Di fare con mia moglie quel viaggio che tante volte le ho promesso. Australia, Laos, Giappone».
Ma la verità vera qual è?
«Che faccio un milione di cose. È appena ripartito Zelig, una grande famiglia. Vanessa Incontrada è come una sorella. Una donna semplicissima, alle prove viene in tuta».
Nel romanzo, Marco rievoca il suo passato: teatro, cinema. Sembra la sua vita.
«Decisi di fare questo lavoro grazie a Dario Fo: negli Anni Settanta lui era già famosissimo ma accettò di venire a fare Mistero Buffo gratis nella nostra scuola occupata. Dario per me è stato un faro».
Il Marco del romanzo interpreta un morto nella bara. Qualche parte assurda al cinema, nella sua carriera?
«Non assurda, ma per me straordinaria nella sua bizzarria: il cameo del benzinaio in Tournée di Salvatores».
Racconti.
«Quella scena non era prevista. Durante le riprese, Diego (Abatantuono, ndr) raccontò che una volta si fermò da un benzinaio, doveva fare pipì ma il proprietario gli rispose “no, deve prima fare il pieno”. Fu un attimo. Gabriele mi chiamò: “Dai, vieni che ho una parte per te”. So solo che a Cannes quella scena venne applaudita in sala».
Le riprese di «Mediterraneo»: un film nel film.
«Partite a calcetto ogni sera, anche se era il 1990 e c’erano i Mondiali. Niente tv su quell’isola, allora facemmo una colletta e ne comprammo una. Scene alla Truffaut».
Il Mirko del romanzo non ne imbrocca una. Ci racconta un suo fallimento?
«Premessa: ero agli inizi della carriera. Serata a Roma, un locale di Trastevere. Numero di spettatori: uno».
E lei?
«Feci il mio monologo, che si intitolava Favola calda, anche se la tentazione era di invitarlo a bere una birra».
I gloriosi anni del Derby, prima di Zelig.
«Confessione: frequentavo la scuola del Piccolo Teatro, un laboratorio rigoroso, dove era proibito accettare impieghi attinenti al teatro. Quindi, di giorno frequentavo le lezioni e facevo le prove, di notte di nascosto andavo al Derby».
Che aria c’era?
«È stata una palestra: pensi lei quanto sia facile far ridere quando intorno hai gente che mangia e si fa i fatti suoi».
Ha imparato anche dagli anni in cui militava in Avanguardia Operaia?
«Quando sono andato a lavorare a Mediaset più di una volta, scherzando con Silvio Berlusconi, gli ho detto “Ma come fa a essere di destra?”».
E lui?
«Gentile come sempre. Ma, sempre per scherzo, Confalonieri più di una volta mi ha detto “Ma Bisio, come fa a essere di sinistra?”».
Con Sandra Bonzi siete sposati da ventuno anni ma state insieme dal ’92.
«Mi conquistò quando si sentì male nella mia macchina dopo una serata allegra».
Nel frattempo, alle sue spalle, Sandra passa e lascia un saluto gentile: scrittrice anche lei, con Claudio hanno due figli, Alice e Federico. A questo «trio» familiare, Bisio ha dedicato il romanzo.
Un ricordo di Paolo Rossi.
«Al Derby ebbe il coraggio di portare un testo pacifista scritto da Benni. Chapeau».
I più giovani non lo sanno, ma prima di «Propaganda Live» c’era «Cielito Lindo».
«Era il 1993, io venivo dal teatro, nemmeno sapevo che cosa fosse una telecamera. Sergio Staino mi chiamò. Era la grande Rai3 di Angelo Guglielmi, satira affilatissima. Luciana Littizzetto debuttò lì con “Minchia Sabbry!”, Aldo Giovanni e Giacomo crearono lì il personaggio di Tafazzi. E sa che cosa ci disse un allora funzionario Rai? “Sta roba non va da nessuna parte, non piacerà a nessuno”. Meno male che oggi la parola “tafazzismo” è nell’Enciclopedia Treccani».
Lei ha scritto un romanzo sul successo. Quando ha capito di averlo raggiunto?
«Era il 2002, facemmo un tour estivo di Zelig. Con Michelle (Hunziker, ndr) ci fermammo in un autogrill. Una donna con un bambino in braccio ci guardava da lontano. Si avvicinò e chiese a Michelle se poteva toccare suo figlio. Capisce? La gente pensava che avessimo poteri taumaturgici».
Zelig partì su Italia Uno, poi passò a Canale 5.
«E noi, ingenui, non capimmo che si trattava di un avanzamento. Scrivemmo una lettera infuocata, sia perché non ce lo avevano detto, sia perché non capivamo bene i motivi. Non sapevamo una cosa molto semplice: che gli incassi pubblicitari di Zelig andavano alle stelle e non era ammissibile che non fossimo sulla rete ammiraglia».
Il momento esatto in cui capì che Zelig era davvero nelle case di tutti.
«Quando in una serata riempimmo lo Stadio Olimpico di Roma».
Su questo giornale, una volta ha detto che se Sandra la lasciasse lei non saprebbe da dove ricominciare.
«Sì, vero».
Però adesso ci dica una donna con cui ha lavorato talmente bella da far tremare i polsi.
«Kasia Smutniak».
E una donna-genio «allevata» a Zelig?
«So che ce ne sono a decine, ma come faccio a non dire Geppi Cucciari? Ecco, adesso sto lasciando fuori Teresa Mannino e Paola Cortellesi... che disastro».