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 2024  novembre 03 Domenica calendario

Usa, un candidato volgare e una debole, reportage dalla Pennsylvania


D’accordo, dobbiamo farcela piacere. È l’unica, esile speranza di evitarci un presidente che disprezza gli europei e l’Europa. Donald Trump, favorito della vigilia, può ancora essere battuto. Ma davvero Kamala Harris è tutta qui?
«N iente in lei lasciava presagire che un giorno sarebbe diventata procuratrice di San Francisco, procuratrice della California, senatrice, vicepresidente» ha detto di lei il suo migliore amico della giovinezza, Matthew Davis, avvocato. Ecco, oggi niente in lei lascia presagire che diventerà presidente.
Non è per la sua voce, da molti giudicata poco gradevole. Né per la sua risata, su cui gli avversari ironizzano. Né per l’altezza, che appare decisamente inferiore al metro e 64 dichiarati («mia madre Shyamala non arrivava a cinque piedi», un metro e mezzo, «ed era la donna più forte che abbia mai visto!» ribatte lei. Trump è alto quasi due metri). E neppure per la sua storia, da cui viene anzi un messaggio di speranza. La campagna della Harris non decolla per un motivo molto semplice.
Donald Trump ha confermato in questi giorni di essere quello che è. Un uomo aggressivo, maleducato, di una volgarità d’animo rivoltante, capace di impostare un comizio sulle dimensioni della virilità di un campione di golf peraltro morto, di mimare un rapporto orale per rianimare un microfono malfunzionante, di invocare il plotone d’esecuzione per i suoi avversari. Sui difetti di Trump si potrebbero compilare decine di saggi, come quelli che affollano le librerie d’America. Martedì notte, comunque vada, Trump annuncerà di aver vinto: se l’avrà fatto davvero, finirà tutto lì; se invece nella realtà avrà perso, comincerà un periodo infuocato di odio che dividerà e indebolirà ancora di più l’America.
Eppure Donald Trump, piaccia o no, è un leader. Kamala Harris, no. E se non sei un leader, non lo diventi in cento giorni di campagna elettorale; tanto più se hai alle spalle quattro anni non esaltanti alla Casa Bianca come vice di Biden.
Non solo; dietro Trump c’è un movimento. Detestabile come lui, egoista, isolazionista, a volte apertamente razzista e golpista. Ma c’è una spinta popolare che si tocca con mano. Dietro Kamala c’è un’alleanza provvisoria di clan che non si amano – i Clinton e gli Obama —, di minoranze che si detestano – ebrei e musulmani – o si ignorano – neri e latini —, di gruppi sociali – dalle donne laureate agli omosessuali – che non hanno una ragione particolare per votare Harris, tranne il fatto che non vogliono Trump.
Pennsylvania decisivaIntendiamoci: la partita è apertissima. Gli ultimi sondaggi non contano molto: in tutti gli Stati in bilico lo scarto è al di sotto del margine di errore. L’impressione è che Trump sia in vantaggio nel Sud – Georgia, Arizona, forse anche North Carolina – e che la Harris possa tenere Michigan e Wisconsin. Alla fine tutto si deciderà qui, in Pennsylvania.
Sulla scalinata di Rocky, quella dove «lo stallone italiano» si allenava in vista dei suoi sanguinosi combattimenti, stanno allestendo il palco per la chiusura della campagna di Kamala. Ci sarà un concerto: finora hanno cantato per lei Stevie Wonder, Beyoncé, Eminem, Jennifer Lopez e l’eroico Bruce Springsteen, che schitarra per i candidati democratici dal secolo scorso. Ieri è passata Michelle Obama, l’altro ieri l’uomo presentato come «the second gentleman» o «el segundo caballero», insomma il marito di Kamala, Douglas Emhoff: un gentiluomo timido ed educato costretto a improvvisare comizi nella periferia più povera d’America.
Philadelphia, la città della dichiarazione d’indipendenza, è stata a lungo la più popolosa degli Stati Uniti; e vista dal ristorante del sessantesimo piano del Four Season, dove i clienti sono tutti rigorosamente bianchi e i camerieri tutti rigorosamente neri, Philadelphia pare un’elegante scacchiera di strade dritte, con i grattacieli lungo il Delaware e la torre con la campana della libertà, simbolo della rivoluzione americana. Vista dal basso, a ogni angolo di marciapiede è disteso un ragazzo che dorme o trema o parla da solo. Non occorre andare al «Walmart del Fentanyl», il sottopassaggio della Kensington Avenue dove infuria il più grande mercato di droga della costa orientale, frequentato da pusher, clienti e genitori che sollevano i cappucci delle felpe alla ricerca dei figli. Tossici ed emarginati sono ovunque, e quel che colpisce è che non si tratta di gang: ognuno di loro è solo.
Per l’economia al tempo di Biden vale la stessa regola. Vista dagli economisti, non è mai andata così bene: occupazione record, inflazione in discesa. Vista con gli occhi della quotidianità, l’America post-Covid appare impoverita e incattivita: tutto costa il doppio, a volte il triplo; l’ex classe media soffre moltissimo; sono sempre più rari i proverbiali sorrisi degli americani, e non solo perché spesso spalancano bocche prive di denti (una cura canalare costa tremila dollari). L’ingresso al museo, quello della scalinata di Rocky e dell’ultimo comizio di Kamala, costa invece 30 dollari; forse per questo davanti ai Masaccio e ai Botticelli di commovente bellezza non c’è neppure un visitatore, al custode immigrato dall’Albania non sembra vero di avere qualcuno con cui chiacchierare nell’italiano imparato davanti alla tv degli Anni 80: «Spero che Kamala perda. Perché? Perché è comunista».
Questo è difficile da capire per noi europei, che – tranne i sovranisti più accesi – conosciamo semmai la paura di Trump, pronto ad abbandonarci nelle mani di Putin («se non pagate di più per la Nato non vi proteggerò, anzi dirò al mio amico Vladimir di fare con voi quel che diavolo gli pare»). E in effetti la paura e il disprezzo per Trump sono diffusi anche qui in America. Ma è altrettanto forte la paura di Kamala.
Cresciuta nella città più liberal, San Francisco, la Harris non ha il profilo giusto per conquistare Stati postindustriali come la Pennsylvania, dove le classi popolari chiedono sussidi e protezioni ma sono poco affascinate se non irritate dalla cultura woke, roba da californiani ricchi. In effetti l’unico problema che Kamala non ha è il denaro. La sua campagna ha raccolto un miliardo di dollari e ora non sa come spenderli, gli spot bisognava prenotarli prima, li sta comprando pure sulla Fox, la rete nemica, nella speranza di intercettare i repubblicani disgustati da Trump.
Kamala ha un bella storia personale, in cui Obama ha visto il riflesso della propria. Anche se è stato l’ultimo ad appoggiarla dopo il ritiro di Biden, ha da sempre un debole per lei, in passato l’ha definita «la più bella procuratrice generale del Paese». Ma non è detto che, negli Stati in bilico, essere una donna nera, di madre indiana e padre giamaicano, sia un vantaggio. Lei ha cercato di occupare il centro, di lanciare messaggi rassicuranti per una certa America. Ma quando ha detto di dormire con la pistola sul comodino, o di pregare due volte al giorno, non è sempre parsa convincente. Il padre era un economista marxisteggiante, la madre hindu di etnia Tamil, alle figlie ha dato nomi di divinità (la sorella, Maya Lakshmi, è importantissima, tipo Arianna Meloni). Kamala si è avvicinata alla chiesa battista. Quando Biden la chiamò per dirle «mi ritiro, tocca a te», per prima cosa ha telefonato al suo padre spirituale, il reverendo Brown, che le ha letto il libro di Ester, la regina che salva il popolo dallo sterminio.
Trump è notoriamente un senzadio, dalla vita erotica smodata: i manifesti della Harris gli attribuiscono «34 aggressioni sessuali»; il giornalista che lo conosce meglio, Michael Wolff, ha diffuso un frammento delle registrazioni in cui Jeffrey Epstein, predatore morto suicida in carcere, scommette col suo grande amico Donald su chi dei due riuscirà a sedurre per primo Lady Diana. Eppure, a eccezione degli evangelici che lo trovano eccessivo, gran parte del voto cristiano andrà su di lui, in particolare quello cattolico: l’unico quartiere di New York in cui è in vantaggio, Staten Island, è quello degli italoamericani.
La sua campagna ha avuto un coprotagonista illustre: Elon Musk. Di lui e delle sue auto elettriche Trump aveva detto tutto il male possibile. Poi Musk ha comprato Twitter e gliel’ha messo a disposizione, insieme a un sacco di soldi; Trump ha apprezzato. Se un leader africano o asiatico avesse messo in palio tra gli indecisi un milione al giorno, gli osservatori americani avrebbero invalidato le elezioni per brogli; infatti l’idea di Musk è stata bloccata dalla magistratura; ma per giorni non si è parlato d’altro. Qualcuno sostiene che Musk non stia lavorando per Trump, ma per sé: se un milionario come Donald può diventare presidente, perché un miliardario come Elon non può diventare il vero grande capo della nuova destra globale? Non a caso, la vecchia destra detesta sia lui sia Trump.
Tutti gli ultimi candidati repubblicani appoggiano più o meno apertamente la Harris: la famiglia McCain, Romney, i Bush, i Cheney. La persona per cui Trump ha simpaticamente chiesto il plotone d’esecuzione è Liz Cheney, la figlia di Dick, a lungo il vero padrone del Paese, che ora Trump irride: «Cosa vuole Cheney? Ha distrutto il Medio Oriente, e adesso chiede ai musulmani di votare per Kamala? Non prevedo un grande successo».
Le campagne d’odio di Trump hanno effetti devastanti, i suoi bersagli devono come minimo uscire dai social, se non chiedere la scorta. Dopo la stupidaggine sugli haitiani che mangiano i gatti, hanno dovuto chiudere le scuole dei loro figli, il governatore repubblicano dell’Ohio è intervenuto per difenderli, «gli haitiani sono bravi lavoratori, non cucineranno mai il vostro micetto». La macchina cospirativa di Trump, dietro cui il New York Times vede la mano dei russi, sforna ogni giorno un video ovviamente falso in cui si vedono distruggere le schede con il suo nome o trasformare voti elettronici per Trump in voti per Harris. E comunque la Philadelphia Machine, la macchina democratica, si è già messa in moto: nel 2012 fece miracoli, Romney denunciò che in 59 seggi non c’era neanche un voto, uno solo, per lui; ieri è stato annunciato che tutti i suffragi per mail in Pennsylvania saranno giudicati regolari, anche quelli che il sistema considera non validi.
Eppure, man mano che si esce dalla città, si rarefanno i cartelli per Harris e aumentano quelli per Trump. Alla periferia Nord hanno eretto anche una sua statua, con il ciuffo rossiccio: è orrenda, ma si vede da lontano, pure dal treno per New York, quindi a lui è piaciuta. A New York per incontrare Trump la Harris venne almeno due volte, la prima con il suo mentore, il presidente del Parlamento californiano Willie Brown (da non confondere con il reverendo: non era il padre spirituale, era l’amante), la seconda a ricevere due assegni per la campagna elettorale da procuratore; Trump com’è noto ha finanziato i democratici per una vita. Ma sono dettagli che non incidono sul voto. Come incidono poco le due guerre in corso, in Ucraina e in Medio Oriente: Trump con la nota faciloneria promette di fermarle entrambe; resta il fatto che l’America di Biden-Harris ha dato l’impressione di non essere decisiva in nessuna delle due. Ora i democratici dovranno restare saldi nella terza guerra, che si combatterà in casa, si spera senza armi.
Perché martedì notte Trump griderà comunque vittoria, e se avrà perso griderà ai brogli. Può ancora essere sconfitto, e anche chiaramente, se nelle ultime ore la Harris mobiliterà gli americani che non lo vogliono. Intanto il tabellone luminoso nel centro di Philadelphia indica che gli scommettitori stanno puntando sempre più su di lui. A Washington hanno rafforzato i reticolati attorno alla Casa Bianca.