La Stampa, 2 novembre 2024
Michela Cescon e quel litigio con Ronconi
Deve molto a Torino Michela Cescon: veneta, con base a Roma ormai da molti anni, la città della Mole occupa un posto importante nella sua vita. Come ci ricorda lei stessa parlando del suo rapporto col cinema e della sua nomina a presidente della giuria dei corti al 42° TFF. Insieme a Margaret Mazzantini (lungometraggi) e Roberta Torre (documentari), «un trittico di donne che mette allegria», commenta.
I corti: un genere “minore”?
«Ma no. I corti sono l’essenza stessa del fare cinema. Viviamo di serialità ma questo genere che tanto piace un po’ impigrisce: dice tutto nel dettaglio. Il cinema al contrario con le sue omissioni costringe lo spettatore a essere attivo. Ecco, il corto ancora di più: è palestra di sintesi ed elissi, di scelte radicali. Insomma, pur essendo il luogo privilegiato degli esordienti, è il genere più difficile e interessante. Peccato solo che non abbia ancora trovato un modo per essere ben veicolato fuori dai festival. Potrebbero farlo le piattaforme?».
Quali film ama?
«Ognuno è segnato da come ha cominciato: io dai film d’autore e d’essai che vedevo in un cinemino di Treviso, Kieslowski, Kaurismaki, Won Kar-wai... Che è poi lo stesso cinema che interpreto. Poi però sono arrivati i miei figli e con loro mi sono aperta al cinema di puro intrattenimento, cartoon e supereroi».
In che senso segnata?
«Non pensavo di recitare, mi ero iscritta ad Architettura. Poi ebbi un incidente di moto: investita in pieno da un ubriaco rischiai la vita. In ospedale iniziai a pensare a cosa volevo fare davvero: capii che le mie scelte erano altre. Senza che me ne rendessi conto, quei film avevano messo in moto un processo di cambiamento. Così due anni dopo ero sul palco del Carignano con Popolizio nel Ruy Blas diretto da Luca Ronconi».
È allora che arriva a Torino?
«Avevo fatto domanda in varie scuole di recitazione e mi aveva accettato quella dello Stabile allora diretta da Ronconi. Le devo e gli devo la mia nascita artistica. Ma durò poco».
Come mai?
«Ci tengo a dirlo: Ronconi, professionalmente, è mio padre. È un incredibile docente. E anche come regista è straordinario, ma è anche molto oppositivo e impositivo con i suoi attori. Finché sei studente è una delizia, ma come cambi ruolo è un massacro: devi adeguarti alle sue intenzioni, non c’è altra possibilità. Ho capito presto, però, che la sua visione non era la mia. A un certo punto, eravamo a Roma, litigammo furiosamente, mi minacciò: “Non lavorerai mai più”. A 23 anni ebbi la forza di mandarlo a quel paese. Sarà stato quell’editto, sarà stata conseguenza delle mie scelte a seguire, ma davvero nei “teatroni” non ho quasi più messo piede».
Di che stroncare per sempre una carriera. Gliene ha voluto?
«Mi incontrava e si complimentava. Ma non è mai tornato indietro. Gli sono grata di avermi costretto a fare certe scelte: interpretare cose molto personali e in piccoli spazi è stata la mia fortuna e il mio segno distintivo. Mi ha fatto vincere tanti premi e incontrare altri due registi fondamentali per me: Valter Malosti e Matteo Garrone».Ci racconta? Con Malosti torniamo a Torino.«Con lui passai dalla regina ieratica di Ruy Blas al Puck spiritello bizzarro e volatile di Sogno di una notte di mezza estate. Con Valter (poi anche mio compagno) è stato un lungo percorso condiviso ma anche molto mio, che mi ha portato a produrre e dirigere. Nel 2018 infatti viene nominato alla guida di Fondazione Teatro Piemonte Europa e deve lasciare il Teatro di Dioniso, piccola compagnia torinese di produzione di cui era l’anima fin dalla fondazione: è allora che mi chiede di prenderne la direzione artistica. Ed eccomi nuovamente legata a filo doppio a Torino».
Qui si è sbizzarrita, o sbaglio?
«In un teatro che ancora più del cinema è maschile, dove sono poche le registe e ancora meno quelle che dirigono un teatro o hanno una propria compagnia (una volta, dalla Duse agli Anni 70 non era così), dove continuano a essere una minoranza gli spettacoli che ruotano attorno a personaggi e interpreti femminili, ho fatto scelte anche radicali che riguardavano proprio la questione di genere e davano al talento delle donne il giusto spazio».
Come Svelarsi, di cui è produttrice con Dioniso?
«Quello di Silvia Gallerano è uno spettacolo borderline e dirompente, un po’ happening e un po’ sabba: è interpretato da 10 attrici che si interrogano sulla nudità e aperto a un pubblico solo femminile. A breve sarà a Palermo, Bologna, Roma (Ambra Jovinelli), Napoli, Milano (Carcano). A Torino arriverà a marzo, al Teatro Erba. Ringrazio tutti quelli che l’hanno in cartellone per la fiducia: a parte il Carcano che è governato da tre donne, gli altri sono teatri a direzione maschile, vuol dire che al massimo l’hanno visto le madri mogli fidanzate o figlie».
E con Garrone? Primo amore è un’altra scelta estrema.
«Venne a vedermi in uno spazio off romano con il padre critico teatrale. Pochi giorni dopo mi telefona: “Quanto pesi?”. Voleva propormi un azzardo, lui stesso con qualche dubbio. Che abbiamo risolto, anche ragionandoci insieme: sotto stretto controllo medico, perdevo peso a mano a mano che procedevano le riprese. In 6 settimane sono passata da 60 a 42,5 chili. Ero al limite: non anoressica ma autocompiaciuta della mia magrezza. Ricordo la fatica fisica e la forza di volontà di digiunare mentre giravamo, con quelle troupe romane che davanti a me si scofanavano di tutto. Riprendere i chili è stato quasi più difficile: è la gravidanza che mi ha fatto tornare normale».
Tra gli importanti c’è Marco Tullio Giordana con cui ha fatto 4 film e uno spettacolo da 9 ore, The Coast of Utopia.
«È una persona con cui, molto semplicemente, mi sono trovata in sintonia fin dal primo film. Gli chiesi di dirigerlo e, una volta salito a bordo, non ha mai avuto dubbi. A Coast ho lavorato 5 anni ostinatamente, nessuno voleva coprodurlo... Mi ha dato enormi soddisfazioni, ma dei costi non sono mai del tutto rientrata. Diciamo che è come se mi fossi fatta un regalo costoso».
Tanto teatro, bei film d’autore, e poca tv. Ma con Blanca si è rifatta. Contenta?
«E come no... Nei panni della madre della protagonista mi hanno odiata tutti. Non potevo neppure andare a prendere il caffè nel bar sotto casa senza che qualcuno mi aggredisse: “Ma non ti vergogni?”. E pensare che sono sempre stata allergica ai red carpet e a un certo tipo di popolarità. Un bel gap per un attore. Ma che forse aiuta capire perché abbia detto di sì a Garrone: il mio primo passo fuori dal teatro, un film dove ero irriconoscibile».