la Repubblica, 2 novembre 2024
Tonia Mastrobuoni intervista la scrittrice Jenny Erpenbeck.
«La libertà come ti fa sentire? Vuol dire non avere più avversari che hanno un nome?». Verso la fine diKairos,il capolavoro di Jenny Erpenbeck che esce in questi giorni per Sellerio, cade il muro di Berlino. E uno dei personaggi coglie in nuce il disorientamento di milioni di tedeschi che con la fine del regime si inebriarono di libertà senza pensare al dopo. Quella libertà ha creato nei decenni anche i demoni che spuntano adesso dalle urne e quel muro nelle teste che non sembra ancora sparito.Jenny Erpenbeck è la prima scrittrice tedesca ad aver vinto con Kairos il prestigioso International Booker Price. E il suo è un romanzo potentissimo, coinvolgente e sofisticato che narra una storia d’amore travolgente tra un cinquantenne, Hans, e una diciannovenne, Katharina. E la fine della Ddr, raccontata con pennellate inedite e dettagli che si ritrovano raramente in altri romanzi sulla caduta del Muro, si intreccia con l’evoluzione complicata, dolorosa del loro amore. Sono i Lehrjahre, gli anni di apprendistato di Katharina, ed è il momento in cui lei e un Paese intero devono diventare adulti. E forse troppo è stato buttato via, in questo processo. Abbiamo intervistato la grande scrittrice berlinese in esclusiva per Repubblica.
Erpenbeck, perché ha scritto un romanzo ambientato negli anni della caduta del muro di Berlino?
«Per alcune storie c’è bisogno della distanza, dello sguardo “saggio”, del coraggio della vecchiaia. Racconto cose difficili, dolorose, è meglio non scriverle quando si è ancora coinvolti, anche nei processi politici, quando non si sa ancora in che direzione andranno. Avevo cose da raccontare che non avevo ancora trovato altrove, volevo capire se le grandi promesse di quel momento si sono realizzate o perché sono fallite, e da dove vengono».
La cosa miracolosa di questo romanzo è che Hans, che ha un passato oscuro, che diventa crudele, resta sempre una figura affascinante. Per il lettore è difficile abbandonarlo, considerarlo in modo del tutto negativo.
«Sì, è crudele e applica a Katharina le tecniche manipolatorie tipiche dei servizi segreti. Ma non è il classicoBetonkopf, non è ottuso. Io questo cliché del tizio della Stasi che è cattivo e idiota l’ho visto troppo spesso nei libri o nei film. Non è interessante. Lo diventa, invece, se è una figura con la quale riusciamo a identificarci. Hans è un uomo estremamente colto, è un amante straordinario, all’inizio. Ma ha un abisso dentro di sé».
Dal suo romanzo si capisce quanto nella Ddr la cultura fosse importante. E nel suo attaccamento all’arte, Hans ricorda un po’ i protagonisti de “La Torre” (Feltrinelli) di Uwe Tellkamp: la cultura è un riparo.
«La stagnazione politica negli anni ’80 fece sì che molti, nella Ddr, si rifugiarono in un mondo interiore, un po’ come nel Biedermeier. Che, non a caso, è stato molto studiato, nella Ddr. E tutti gli intellettuali avevano mobili Biedermeier a casa( ride).C’era una generale fuga verso l’interiorità, si scappava anche dalla realtà politica. E dunque l’arte aveva un significato totalmente diverso.Anche perché il regime stesso le dava un peso enorme. E lo sapevano benegli artisti all’opposizione le cui opere venivano vietate e censurate. Non c’era lo stordimento dei social».
Cosa le viene in mente ora che si avvicina l’anniversario del 9 novembre, i 35 anni dalla caduta del Muro?
«Ho avuto il privilegio di assistere al crollo di un intero Stato ed è naturale riflettere su quanto ciò sia avvenuto rapidamente, su quanto sia stata rapida la trasformazione da un Paese all’altro. Non sto giudicando, dico solo che è cambiato tutto, anche il sistema dei valori. A noi continuano a dire “siate grati per la libertà”. La verità è che i cittadini della Ddr hanno riflettuto molto di più sulla libertà, credo, di quelli della Repubblica federale. E la libertà è qualcosa che bisogna meritarsi».
Pensa come Joachim Gauck chelibertà è responsabilità?
«Sì perché ognuno è affidato a se stesso. La nostra è diventata una società di guerrieri solitari».
Si sarebbe dovuto tentare il socialismo “alternativo” proposto allora da alcuni intellettuali?
«Il consumismo è una forza molto potente. E non puoi costruire un sistema con cento persone per rendere meno importante il consumismo, se è contro la volontà del popolo. Le idee sviluppate allora furono spazzate via dalle prime elezioni libere della Ddr, a marzo del 1990».
Lei come si spiega l’estremismo a Est, il successo di Afd e Wagenknecht?
«È difficile. Dopo l’euforia del “diventare occidentali”, c’è stata molta delusione. Prenda solo le élite, totalmente dominate da tedeschi dell’Ovest. Solo il 2% delle posizioni apicali nell’istruzione, nella politica, nell’economia, eccetera sono occupati da tedeschi dell’Est».
Ma per sedici anni c’è stata una cancelliera che veniva dall’Est: Angela Merkel.
«Sì ma ha sempre taciuto sul suo passato nell’Est. E a Ovest non è certo stata accolta a braccia aperte, ha dovuto combattere, per imporsi».
Una volta Wolfgang Schaeuble ci disse che il 9 novembre 1989 è stato il giorno più felice della storia tedesca. Concorda?
«No. Per me il giorno più felice della storia tedesca è stato la liberazione dal nazismo. Ricordo molto bene il paternalismo di Schaeuble e di Kohl. Schaeuble disse che “la riunificazione non è tra pari: è un’adesione della Germania Est all’Ovest”. E si dimenticò che noi non avevamo fatto una rivoluzione pacifica e buttato giù il Muro per una “adesione”».
Chi viene dall’Est si sente dire sempre “siate grati per la libertà”«Ma sappiamo più di loro che la libertà bisogna meritarla».