La Stampa, 2 novembre 2024
Biografia di Erno Rubik
Erno Rubik adora leggere, le piante grasse e il profumo del mare. La sua casa a Budapest è luminosa, piena di libri, quadri e divani bianchi in cui sprofonda mentre intreccia le braccia dietro la nuca e ricorda le traversate di un bambino sul lago Balaton, la magia dell’acqua e del sole, in un mondo tagliato fuori dalla Cortina di ferro. La sua espressione è quella di uno che ha appena risolto un problema, anche se in realtà, lui il problema l’ha creato. Architetto influenzato da Le Corbusier, professore, designer, eroe nazionale ungherese, cinquant’anni fa ha inventato – ma lui dice “scoperto” – il Cubo magico, il Cubo di Rubik per l’appunto, che è stato maneggiato (anche se non risolto) da almeno da una persona su sette in tutto il mondo. Un successo planetario e insieme una fonte di frustrazione globale. Ern? Rubik spesso ignora le domande rispondendo con altre domande – «Sono curioso, mi scusi» – e trascina spesso il discorso nel mondo astratto dei concetti: «Il Cubo è una metafora esistenziale e sociale».
Professore, allora partiamo subito da qui: in che modo un cubo di plastica può essere la metafora della vita?
«Lei è mai riuscita a risolverlo?»
No.
«Ecco, appunto, ma ci ha provato. E attraverso i suoi tentativi ha fatto un viaggio, magari frustrante, ma determinato a risolvere il segreto. E mentre lo faceva ha pensato, ha provato emozioni, ha imboccato strade senza uscita, è tornata indietro, ha scoperto cose, ne ha smarrite altre. Che importa risolvere i segreti della vita se la stiamo vivendo? Non è la destinazione finale la cosa più importante, lo sono il percorso e quello che succede lungo la strada: a volte scopriamo qualcosa mentre cerchiamo qualcos’altro».
Messa così suona bene.
«È così. Il Cubo, così come la vita, è una storia molto colorata e piena di possibilità, almeno per la maggior parte delle persone. A volte non succede nulla, oppure succedono troppe cose, a volte sono belle, altre tragiche. La vita è un mondo in potenza, con tante facce colorate, la cui combinazione dipende da te. È un tentativo. Guardiamo il Cubo che ho sulla mia scrivania: una faccia è di un solo colore, le altre sono un caos. Ma tutto può cambiare molto rapidamente, come la vita. Se hai un’idea e sei abbastanza deciso da andare avanti, a non mollare, dopo un po’ di tempo, a volte giorni, a volte anni, raggiungi il tuo obiettivo qualsiasi esso sia. Il cubo ti insegna a rimanere curioso e a lottare per raggiungerlo».
Il record mondiale di soluzione del Cubo è di 3,134 secondi. Sta dicendo che non di stratta di trovare le risposte e trovarle in fretta?
«Proprio così. La soluzione elegante, la qualità della soluzione, anche se non porta a 6 facce dello stesso colore, è molto più importante del tempismo».
Lei cosa preferisce, l’ordine o il caos?
«Sono un architetto: l’armonia deve essere l’obiettivo».
Lo scienziato cognitivo Douglas Hofstadter nel 1981 ha scritto che il Cubo «è un’ingegnosa invenzione meccanica, un passatempo, uno strumento di apprendimento, una fonte di metafore, un’ispirazione». Crede che il successo planetario che dura da 50 anni dipenda anche dal fatto che il Cubo sia un’astrazione più o meno universale?
«Sì, credo che parte del suo successo derivi dal fatto che è universale, non ha una lingua. È solo un’astrazione condivisibile dall’umanità. Chiunque, bambini o adulti, può giocarci, a prescindere dalla nazionalità, dal livello di istruzione. Trovo però difficile arrivare a una definizione precisa di quale sia il potere del Cubo, di come possa influenzarci. In un certo senso, è legato alla scienza, che è una parte molto importante della nostra vita. La nostra conoscenza può aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi. Ma il Cubo è anche molto vicino all’arte, che è emotiva. Non è fredda come la scienza, ci fa provare qualcosa. Inoltre, il Cubo è un’esperienza astratta e sensoriale insieme: il contatto è importante, ci fa sentire vivi. Quando ce l’abbiamo tra le mani usiamo insieme la percezione visiva, ne sentiamo la temperatura e l’esperienza del tocco».
Perché un professore che viveva dietro la Cortina di ferro che non voleva inventare nulla, ma semplicemente spiegare ai suoi studenti la rotazione su un asse ha immaginato nel 1974 quel cubo con le facce divise in nove quadrati colorati?
«È stato un incidente causato dalla curiosità. Scoprire qualsiasi cosa, credo, è in parte un incidente. La maggior parte delle cose nella vita e in natura accadono per caso. Ma non è un “destino": se sei curioso, cammini con occhi aperti e scopri cose invisibili fino a quel momento».
Lei è nato il 13 luglio 1944, circa un mese dopo il D-Day, nel seminterrato di un ospedale di Budapest. Come ha influenzato la sua creatività aver vissuto gran parte della vita nell’Ungheria occupata dai sovietici?
«Ho capito che vivevo al di là della Cortina solo quando è caduta. Da bambino non conoscevo altro che la realtà in cui vivevo e tutto quello che mi circondava era naturale, per nulla strano dato che non potevo paragonarlo ad altro. Avevamo cibo, vestiti e una casa, andavamo in vacanza sul lago Balaton e mi pareva tutto bello, normale, quindi non mi rendevo realmente conto di quello che mancava. Ho conosciuto il mondo oltre la Cortina attraverso i libri. Quando ne sono uscito avevo 36 anni e sono andato a New York. E allora sì, è stato parecchio strano».
Come la fa sentire sapere che il Cubo è stato tra le mani di una persona su 7 al mondo?
«È una grande soddisfazione. Ci sono così tante difficoltà economiche, culturali e politiche nel mondo. Il Cubo mi dà la speranza che alla fine le persone siano abbastanza intelligenti da risolvere i problemi e sopravvivere».
Le soluzioni al Cubo sono state sistematizzate tramite algoritmi. Perché il Cubo continua ad attrarre bambini e adulti?
«Questo aspetto mi dà una grande soddisfazione. I bambini e i giovani continuano a scoprire il Cubo toccandolo, anche se magari hanno le App per risolverlo. Nella nostra era digitale, si dice che i giovani perdono il contatto con il mondo reale, ma non è vero, lo stanno solo conoscendo anche con strumenti diversi».
Non è preoccupato che l’intelligenza artificiale possa sostituire lo sforzo umano di risolvere problemi?
«Sì, credo che i più grandi nemici siano dentro di noi. La società dei consumi è un problema, ad esempio. Dobbiamo controllare ciò che usiamo e non sprecare energia. Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. Se non lo facciamo, ci saranno conseguenze catastrofiche. In questo momento stiamo assistendo a una sorta di rivoluzione dell’IA. Mi preoccupa soprattutto come i giovani saranno in grado di affrontare tutti i problemi che già vedo, come il cambiamento climatico e molte altre questioni sociali. Perché il fatto è che la scienza avanza più rapidamente della nostra capacità di adattamento».
Quindi?
«Siamo sopravvissuti a molte catastrofi, anche autogenerate, credo ce la faremo ancora una volta. Il punto è che nei primi anni del 2000 c’era un ottimismo diffuso, si pensava che nel secolo che iniziava tutto sarebbe andato bene e che tutti sarebbero stati felici e soddisfatti. Credevamo di avere il potere di controllare la natura, un errore fatale. La scienza ha fatto molte scoperte, stiamo lentamente imparando a modificare i geni e i genomi, ad esempio, ma allo stesso modo è molto difficile gestire il cambiamento climatico causato dalla nostra industria e dal nostro modo di vivere. Quindi, la soluzione è una sola: cambiare strada, capire che il prezzo da pagare al consumo indiscriminato è troppo alto».
Lei è un noto appassionato di fantascienza. Lo è ancora?
«In passato la maggior parte dei libri di fantascienza erano utopie. Oggi, invece, sono distopie, quindi preferisco dedicarmi alle biografie, le trovo più affascinanti».