la Repubblica, 2 novembre 2024
Cosa manca alla sinistra per costruire un’alternativa
A quattro giorni da un voto americano che può cambiare le sorti del grande mondo, la piccola Italia fa i conti con le sue più modeste contese locali, che ne certificano la crescente astenia democratica. Se in Liguria vanno alle urne quattro elettori su dieci, c’è un tracollo civile che non stiamo capendo.
Alla destra la secessione dei cittadini importa poco: Meloni può festeggiare comunque i suoi sorpassi in retromarcia. Le permettono di consolidare la sua maggioranza, sia pure in un bacino elettorale sempre più ristretto. E le consentono di continuare a parlare solo alla sua gente, intossicando il discorso politico con dosi venefiche di vittimismo complottistico e di ostracismo ideologico di opposizioni e istituzioni.
Ma è alla sinistra che il boom del partito dell’astensione dovrebbe stare più a cuore. È in quel fiume di rabbia, di sfiducia e di disincanto che dovrebbe pescare, per invertire un’inerzia della sconfitta ormai quasi ineluttabile, persino in una regione squassata dallo scandalo di sistema di Giovanni Toti.
La campana ligure suona chiara e forte, per i rissosi mezzadri del fu Campo Largo. Dalle politiche del settembre 2022, lo score delle amministrative segna un mesto 10 a 1 a favore della Sorella d’Italia. A parte la Sardegna, ha fatto cappotto in Sicilia, Lazio, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Molise, Trentino-Alto Adige, Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Liguria. Tra quindici giorni tocca a Umbria e Emilia-Romagna. Che i patrioti al comando possano tenersi la prima è possibile. Ma se dovessero espugnare anche la seconda – roccaforte del socialismo municipale dai tempi di Togliatti – sarebbe la fine della Storia.
I quattro partiti di maggioranza governano male, sono confusi e contraddittori, hanno un personale politico mediocre o impresentabile, ma dal Berlusconi del ’94 a ogni sfida elettorale schierano una coalizione efficiente: colpiscono divisi, marciano uniti. E tanto basta.
I partiti dell’opposizione, al contrario, condividono alcuni valori di fondo, hanno una classe dirigente mediamente più preparata, fanno anche buone battaglie, ma al voto schierano la solita Armata Brancaleone, gli uni senza meta e gli altri pure “ma in altra direzione”: colpiscono uniti, marciano divisi. Perdono per questo (o anche per questo).
E per le sinistre, al contrario della vittoria, è sempre la sconfitta ad avere molti padri. Quella ligure ne offre uno su tutti: il Movimento Cinque Stelle, sbriciolato tra l’incudine di Grillo e il martello di Renzi. Il veto di Giuseppe Conte al leader di Italia Viva ha pesato, anche se non sapremo mai cosa avrebbero fatto i già pochi elettori pentastellati affluiti alle urne, se quel no fosse diventato sì.
Ma oggi accapigliarsi su questo è come vedere la piantina in primo piano e non il bosco che brucia sullo sfondo. Il tema non è cosa decide di fare Conte, in questa o quella regione. È invece lo svaporamento strutturale e identitario dei 5S. Lo spirito originario è perduto per sempre: il regno di Gaia (cioè la difesa dei beni pubblici e la tutela ambientale, l’economia circolare e i diritti del consumatore) e la democrazia di Rousseau (cioè il Vaffa alla Casta, sostituito dalla piattaforma digitale e dall’egualitarismo del clic, poi esaltato da quello straordinario booster sociale che è stato il Reddito di cittadinanza).
Il Movimento è stato l’ultimo avamposto “leninista”. Dall’alto, per la fede cieca nel Verbo del guru Casaleggio. Dal basso, per “l’uno vale uno” che avrebbe portato al potere, al posto delle sclerotizzate nomenklature di partito, la cuoca e il deejay, il bibitaro e il tour operator. Per Vladimir Ilic e i suoi tovarisc fu “elettrificazione più i soviet”: per Beppe e i suoi ragazzi è stata “digitalizzazione più i meetup”.
Serviva solo un Avvocato del Popolo, che nel 2018 garantisse il contratto condiviso con la Lega. E così dallo studio Alpa è spuntato “Giuseppi”, il quirite con la pochette che un po’ alla volta ha imparato il mestiere fino a diventare totus politicus, grazie agli insegnamenti di scuola thailandese di Goffredo Bettini, il Piccolo Budda del Quartiere Salario.
Conte ha trattato il preambolo sovranista con Trump e Bannon e il Pnrr europeo con Merkel e Macron. Dopo uno sbandamento iniziale, se l’è cavata con la crisi pandemica, tra conferenze stampa e Dpcm a pioggia. Nel fuoco della battaglia al Covid, l’Avvocato del Popolo è diventato davvero presidente del Consiglio, ha acquistato prestigio mediatico e spessore politico e ha capito che era ora di mettersi in proprio.
Pian piano, ha fatto fuori amici e nemici, intendenti e concorrenti: Salvini e Di Maio, Letta e Draghi. Ha lasciato Palazzo Chigi – impallinato dal Jep Gambardella di Rignano Fiorentino – con l’idea fissa di tornarci al più presto. Ma adesso, con Grillo e Schlein, la partita è molto più rischiosa e complessa.
Il duello con Grillo – al di là del compenso da 300 mila euro l’anno, che si capisce benissimo – è incomprensibile per chiunque. Si parlano per anatemi biblici, in una lingua esoterica: Beppe dice «si muore più facilmente traditi dalle pecore che sbranati dal lupo», Giuseppe risponde «un padre dà la vita, non la toglie». Ma quella frattura non si può ricomporre.
Il fondatore vuole bloccare l’Assemblea Costituente, e sabotare l’accordo con il Pd. Conte sa che non può cedere all’Elevato, pena la sua eclissi totale. Ma sa anche che se consuma fino in fondo lo strappo, trasformando l’ex M5S nel PdC, cioè il Partito di Conte, sarà poi di fronte a un dilemma esiziale.
Può andare per conto suo, obbedendo ai chierici che gli consigliano di non donare più il sangue al Pd, e poi “fra un paio d’anni chi non muore si rivede”: scelta coraggiosa, che però lo condannerebbe a una definitiva irrilevanza.
Oppure, può sottoscrivere un accordo organico col Pd, riconoscendone il primato e scordandosi una volta per tutte la poltrona di Palazzo Chigi: scelta generosa, che lo esporrebbe al pericolo di una progressiva cannibalizzazione.
Ma cos’altro può fare, l’Avvocato senza più Popolo, se non prendere atto, gramscianamente, dei rapporti di forza? Alle politiche del 2018 il Movimento si portò a casa ben 10,7 milioni di voti. Alle politiche del 2022 ne ottenne 4,3 milioni. Alle europee di quest’anno ne ha presi 2,3 milioni. In cinque anni, con la gestione Conte, i 5S si sono persi per strada più di 8 milioni di voti. Puoi maledire finché vuoi il Bin Salman di Italia Viva (che pure non smette mai di sfasciare lo sfasciabile). Ma forse il tuo problema è un po’ più grave.
Dato a Conte quel che è di Conte, c’è da dire qualcosa di Elly Schlein. La disfatta ligure ha almeno un sapore dolceamaro, perché quel 28% di consensi incorona il Pd primo partito, con ben 9 punti in più di FdI. Ma di fronte all’entropia del fu Campo Largo, la strategia del “troncare, sopire” non basta più.
Dalla politica delle alleanze non si scappa. E con gli alleati, nell’area sempre più scompaginata delle opposizioni, è ora di esercitare una leadership rispettosa ma molto più vigorosa. Ha ragione Gianni Cuperlo a ricordare sul Domani la lezione di Enrico Berlinguer, che nel 1973 considerava «condizione necessaria ma non sufficiente» l’unità dei partiti dei lavoratori, e sottolineava che «il problema politico centrale in Italia è quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra».
Mezzo secolo dopo, il lavoro da fare per battere la destra e tornare al governo del Paese è ancora questo: ricomporre le fratture dell’area progressista, laica e cattolica, e ridare una chance a quei 6 italiani su 10 che vanno al mare invece che alle urne. E chi deve farsene carico, se non il primo partito della sinistra riformista? Anche questo disse Berlinguer, nel suo ultimo colloquio con Aldo Moro: la nostra pazienza ha un limite, ma non è passiva né inerte.