la Repubblica, 2 novembre 2024
Dal nostro inviato a Valencia: reportage tra gli angeli del fango
Mai sottovalutare i badili. «Con il mio – dice Margarita Sastre, laureanda in chimica – svuoto una botte. Con altre decine di migliaia spianeremo questa montagna». La gente ha disobbedito e sta succedendo. Giovedì le autorità avevano intimato: «Restate in casa, l’emergenza meteo non è finita». Nessuno le ha ascoltate. In marcia dalle prime ore dell’alba non c’è solo il popolo sopravvissuto della regione di Valencia. All’improvviso, a tre giorni dalla catastrofe innescata dal ciclone Dana, da qualche parte pare essersi spalancato un formicaio. «Siamo persone semplici – dice Clemente Forero, studente di liceo – non angeli: e tantomeno ci piace il fango». Giusto: restare umani non significa diventare divini. E così eccoli gli spagnoli normali capaci di liberarsi dal triste rimpallo delle colpe, mandato in scena da autorità, politici, scienziati e tecnici, per mostrare al mondo come si riscatta una nazione. Un’arma atomica: il passaparola. «Siamo partiti con il buio – dice Maria Bueno, in arrivo da Madrid – aggirando decine di strade collassate. Perché? Non venire sarebbe una macchia». Sul ponte di Paiporta, paese travolto dalla piena del rio Turia, una colonna infinita di ragazzi avanza così nel fango. Sono carichi di scope, badili, spazzoloni, secchi, argani, compressori, bottiglioni d’acqua e sacchi di pane. Per impedire che un disastro politicamente agevolato si riveli una condanna morale definitiva, hanno camminato per chilometri, superando cumuli di carcasse di auto non ancora aperte da chi cerca cadaveri, dispersi o superstiti imprigionati. «Abbiamo sentito – dice l’imbianchino Luis Quartero – che lo Stato non avrebbe lasciato solo nessuno. Semplice: non ci abbiamo creduto». Hanno avuto ragione. Nelle oltre venti località in cui alluvione e trombe d’aria hanno causato oltre 205 morti, 70 corpi ancora da rimuovere, ufficiosamente fino a 1900 persone non rintracciate, mezzo milione di sfollati, ospedali al collasso, 366 mila persone prive di acqua e 50 mila tuttora al buio, restano i volontari a tenere in vita chi è scampato. L’orrore scatenato chiarisce la sua violenza: in un tunnel alle porte di Valencia, scoperto pieno di auto sommerse, decine di vittime avevano ancora le mani sul volante. «Tre giorni liberi per la ricorrenza dei Santi – dice Xosè Perez, apprendista meccanico – ci permettono di lavorare qui. Non ci muoveremo: è questa la nostra festa di Halloween». Il sussulto decisivo della solidarietà, dopo altri disastri, non è un debutto. Anche l’Italia ha molti ricordi: Firenze, Friuli e Irpinia, Abruzzo, o Emilia Romagna. Qui però la forza del cuore si percepisce moltiplicata per mille. In fila per evitare che a Sedaví il fango indurisca mutando in cemento, ci sono donne in bicicletta con la carriola sulle spalle. Compagni di scuola hanno fatto colletta per acquistare scope e stivali. Madri e padri con una mano spingono carrelli pieni di bottiglioni d’acqua, con l’altra stringono i loro bambini. Ragazzine svuotano per ore i secchi dei calcinacci. Bande di adolescenti distribuiscono medicine ai vecchi. A Picanya gli immigrati, pure vittime dell’onda, cucinano per strada i cibi dell’infanzia e li servono agli sfollati che fino a martedì li ignoravano. «Siamo noi – dice la commessa Victoria Galan – la vera protezione civile. Abbiamo ignorato i politici che ci hanno tradito, la voglia di rinascere è il nostro prodigio». Calma: i cattivi dopo l’apocalisse sono espatriati? No: ai cinquanta sciacalli sorpresi giovedì a saccheggiare negozi, case evacuate, auto fracassate e cadaveri, ne vanno aggiunti almeno altri trenta fermati dalla polizia. «Siamo allo stremo – dice Juan Montoro, venditore di computer nello shopping centre Bonnaire, inabissato e poi razziato dai ladri – e chi si è salvato ci porta via anche i ricordi, o il niente che ci è rimasto. Sei ancora vivo, non basta? Nemmeno il destino conosce la giustizia». Ormai si sa: rialzarsi non sarà facile. Il bene e il male sono coniugi antichi: anche qui i loro dispetti accendono e spengono la fiducia nel futuro. «Mia sorella – dice Sara Martìa, fruttivendola di Alfafar – martedì sera era sul tetto dell’auto con la mia nipotina. L’acqua saliva, lei chiedeva aiuto, la mia mano è arrivata a uno spillo dalla sua. Non sono riuscita ad afferrarla. Mentre veniva trascinata via dalla corrente, mi ha sorriso. Voleva ringraziarmi per averci provato: lasciarmi morire non mi spaventa più». Anche da simili stelle, subito oscurate dal buio, nasce l’indifferenza collettiva che in queste ore accoglie i rassicuranti annunci delle autorità. «Alzato da1200 a 2000 – chiede a Catarroja Ferran Albalat – il numero dei soccorritori dell’Unità di emergenza militare? Sarà, noi qui ancora non li abbiamo visti». Esagera. La Guardia Nacional ora c’è e si vede. Colonne di autobotti e camion carichi di viveri entrano nei centri crollati. Faticano ad avanzare, rallentati dalla folla dei volontari. «Siete troppi – il sorprendente monito del presidente regionale Carlos Mazòn – le strade rischiano di crollare, così ostacolate i soccorsi». Chi è nel fango ascolta e spera sia un incubo. Tra le macerie si formano colonne chilometriche di alluvionati, sporchi e sfiniti,per ore in attesa di acqua, pane e un sandwich per ogni componente della famiglia. Come resisterebbero? Nessuno in casa può lavarsi, cucinare, dormire in un letto. «E chi ha in camera salme ancora da recuperare – dice David Fabra, falegname di Alfafar – lascia a loro il posto più pulito. Se non avessimo sentito l’abbraccio di questa massa di persone, non rassegnate a lasciarci diventare invisibili, a bere e a mangiare nemmeno penseremmo più. Resistere sembra assurdo, perfino spalare via il fango appare futile». Serviranno mesi per cominciare ad aggiustare 150 strade cancellate, dueo tre settimane per far ripartire i treni, anni per ricostruire le case. E il bilancio dei morti sale così inesorabilmente che alla camera mortuaria aperta sotto il palazzo di giustizia del capoluogo si è dovuto aggiungere un obitorio anche dentro la Fiera. Negata per ora, ai congiunti e a chi cerca i dispersi, la possibilità di entrare. Un dettaglio rivela la realtà: solo quindici, su 205, i corpi identificati. «I badili dei nostri ragazzi non bastano – dice Ignacio Fabra, 93 anni, portato in salvo nella casa di riposo di Sedaví – ma senza di loro la Spagna annegherebbe nella vergogna».