Corriere della Sera, 2 novembre 2024
Guai in arrivo: l’economia italiana sta smettendo di crescere
La crescita non c’è più. Eppure nelle pause degli incontri del Fondo monetario internazionale, la scorsa settimana a Washington, i delegati italiani hanno mostrato una certa ragionevole fiducia: nel 2025 il deficit pubblico potrebbe scendere entro il 3% del prodotto interno lordo.
Se andasse così, il Paese potrebbe uscire dalla procedura europea sui conti un anno prima. Gli effetti si vedono in un costo del debito che rimane stabile sui mercati, malgrado le tensioni recenti sui titoli di Parigi e Londra. Resta però da capire se persino l’Fmi non sia stato troppo ottimista. La settimana scorsa ha previsto per il Paese una crescita quest’anno dello 0,7%, in frenata sul 2023 e ben sotto l’obiettivo di 1% per il governo. Oggi però a Roma si firmerebbe subito per una conferma della stima dell’Fmi, perché l’alternativa è peggio: nel terzo trimestre la dinamica dell’economia è stata piatta, dunque la crescita cumulata a fine settembre è di 0,42%. Dopo un rimbalzo post-pandemico più rapido di quello di Francia e Germania, l’Italia sembra avanzare nel 2024 a velocità dimezzata rispetto agli obiettivi ufficiali. Siamo a un cambio di stagione?
Recessione Nel Paese si sta consumando, nell’indifferenza di molti, una crisi industriale seconda solo a quella seguita al crac Lehman. Da novembre 2022 all’agosto scorso, il fatturato manifatturiero è sceso dell’8% (stime da Istat). Ad andare particolarmente male non sono solo settori in declino storico come il tessile (-24%) ma anche quelli che consumano più energia: metallurgia (-15%), gomma e plastica (-14%), autoveicoli (-23%).
Parte del problema è indiscutibilmente dentro al Paese. Massimo Beccarello dell’Università Bicocca mostra che in Italia il costo della materia prima elettrica (prima di tasse e altri oneri) è triplo rispetto alle medie scandinave, il doppio di Spagna e Francia, un terzo più della Germania. E poiché l’Europa ha prezzi elettrici nettamente più alti di Asia e Nord America, l’Italia compete per la bolletta elettrica più cara al mondo. Accelerare sulle rinnovabili aiuterebbe. Eppure il recente Testo unico di governo in materia, così come i decreti su aree idonee, agricoltura e ambiente creano in questa fase un rallentamento.
Ma non è solo una questione interna. La frenata dell’industria oggi è un problema globale. Gli indici di fiducia del manifatturiero danno cali in Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Corea del Sud, Messico e Turchia, mentre persino la Cina è sul filo. In questo quadro l’export italiano va francamente male: in agosto -6,7% in valore sull’anno prima (in volume, crollo a doppia cifra), per un quarto provocato dagli Stati Uniti. Dopo il Covid i consumatori semplicemente vogliono meno prodotti – in proporzione – e più servizi: più esperienze. Non è un caso se nella stagnazione anche dei servizi, in Italia legata al declino demografico (meno 2% il commercio da inizio legislatura), va bene quasi solo il turismo: balzi in doppia cifra per alloggi, ristorazione, tour operator, voli. Diventeremo un popolo che chiude i fine mese facendo gli affittacamere? E perché non ce ne siamo accorti prima?
Sorpresa occupazione La distrazione del governo e della politica si spiega anche con l’occupazione: va bene da anni, con 734 mila posti creati da inizio legislatura. Ma i numeri possono dare un falso senso di sicurezza. Pochi hanno notato come Banca d’Italia (nell’ultimo bollettino sotto il governatore Ignazio Visco e nella prima relazione sotto Fabio Panetta) spiega le cause della crescita dei posti: con i tassi d’interesse alti e l’energia cara, le imprese hanno preferito assumere braccia a buon mercato invece di comprare macchine. Ma la produttività è scesa, neanche di poco. E ora questa fase è finita: nell’ultimo anno l’esercito degli inattivi è già cresciuto di 382 mila persone.
Mistero PnrrAiuterebbe un Piano nazionale di ripresa e resilienza che corra, anche per accelerare la riconversione del Paese in economia di servizi ad alto valore aggiunto (per esempio, digitali) che il mondo oggi premia. Ma del Pnrr si sa poco. Non è chiarissima la catena di comando con l’uscita del ministro Raffaele Fitto. Né è chiaro quanto si sia speso dei 194 miliardi di euro, a meno di due anni dal traguardo. Ufficialmente solo il 26%, per metà in incentivi automatici come il Superbonus. Ma quando la Fondazione Openpolis si è appellata al Freedom of Information Act (Foia) per avere i dati dei 263 mila progetti, Palazzo Chigi – malgrado la legge – non ha risposto.