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 2024  novembre 02 Sabato calendario

Cabala e numeri contro Kamala

Riuscirà Kamala a battere la Cabala? L’«arte che presume d’indovinare il futuro per mezzo di numeri», sulla carta, non le darebbe scampo. Tutto, nella storia degli States, le giocherebbe contro. Essere donna, in America, è ancora un handicap. Nell’economia, visto che secondo Fortune nelle prime 500 imprese americane i Ceo di sesso femminile sono solo 44: l’8,8% contro il 91,2%. Ma più ancora in politica. 
N el ranking attuale dell’Inter Parliamentary Union Report sul peso delle donne nei parlamenti del mondo gli Usa sono al 75º posto. Ben 17 gradini sotto all’Italia (e già ce ne vergogniamo rispetto ai paesi europei più civili) ma molto sotto addirittura a Ruanda, Cuba, Nicaragua, Messico... 
Certo, alcuni segnali incoraggianti ci sono. Su tutti, il raddoppio delle governatrici ai vertici degli Stati: otto anni fa, quando Hillary Clinton fu sconfitta da Trump nella corsa alla Casa Bianca a causa di pochi stati chiave a dispetto dei 2.868.686 voti popolari complessivi ricevuti in più, le donne alla guida di uno dei 50 Stati della federazione erano sei. Oggi sono dodici, 4 repubblicane e 8 democratiche. Come Gretchen Whitmer, nel Michigan. Pur essendo calati rispetto ad allora, gli Stati che non hanno mai avuto ai vertici una governatrice in tutta la loro lunga storia restano però diciotto. Un terzo abbondante. Tra cui alcuni degli stati in bilico che martedì potrebbero essere determinanti: Georgia, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin. 
È possibile che finalmente Kamala Harris spezzi il tetto di cristallo? «Yes, she can», ha risposto Barack Obama alla convention di Philadelphia rispolverando il suo slogan nella trionfale campagna elettorale del 2008: non riuscì lui stesso, allora, ad essere eletto, primo afroamericano di tutti i tempi, dopo quarantadue presidenti (alcuni rieletti più volte) maschi bianchi consecutivi? Le serie storiche sono fatte apposta, un giorno o l’altro, per essere ribaltate. 
Paradossalmente, però, quelle serie storiche spingono i più cauti a toccare ferro. Perché le date, come il Corriere ricordò anni fa, dicono tutto: il XV° Emendamento che sulla carta concesse il voto agli afro-americani abolendo i limiti causati da «razza, colore o precedente condizione di schiavitù» (anche se poi l’esercizio del diritto sarebbe stato di fatto per decenni negato in troppi stati) passò alla Camera dei rappresentanti con 44 voti contrari nel 1870, il XIX° che riconobbe il voto alle donne nel 1920: mezzo secolo dopo. E stavolta col doppio dei voti contrari: 89. Il primo deputato nero, Joseph Hayne Rainey, entrò in Campidoglio nel 1870, la prima donna Jeannette Rankin nel 1916: quarantasei anni dopo. Il primo senatore nero Hiram Rhodes Revels nel 1870, la prima senatrice Rebecca Latimer Felton, nel 1922: cinquantadue di più tardi. E distacchi simili marcarono l’arrivo del primo governatore afroamericano Pinckney Benton Stewart Pinchback (figlio di una coppia mista) subentrato per un mese alla fine del 1872 a Henry Clay Warmoth sospeso per impeachment, e solo nel 1925 le prime due governatrici, Nellie Tayloe Ross nel Wyoming e Miriam Ferguson nel Texas, subentrate la prima al marito morto e la seconda al marito condannato per reati finanziari e associato nelle nuove elezioni con uno slogan indimenticabile: «Due governatori al prezzo di uno». E se fu necessario attendere il 1967, dopo John Kennedy, perché Lyndon Johnson nominasse alla Corte Suprema un nero, Thurgood Marshall, ci vollero altri ventisei interminabili anni perché Bill Clinton facesse spazio alla prima donna, Ruth Bader Ginsburg. Nel 1993. Ieri mattina, in termini storici.
A farla corta: i passi avanti, nella storia americana, sono stati per le donne perfino più lenti e accidentati di quelli degli ex schiavi nei campi di cotone. Figuratevi, oggi, per una donna nera. Alle prese, ha scritto il New York Times parlando dell’«elefante nella stanza», con un problema in più: la «misogynoir» (neologismo creato dalla studiosa di colore Moya Bailey) di tanti maschi afroamericani che otto anni fa diedero al bianco e biondo Donald Trump il doppio dei voti percentuali delle donne afroamericane. Un tema già sollevato nei decenni da tante femministe di colore critiche sul «black macho» e ripreso a Pittsburgh dallo stesso Barack Obama prendendo di petto quelli che furono i suoi stessi elettori: «Mi sto rivolgendo direttamente agli uomini, che, beh, semplicemente non vi piace l’idea di avere una donna come presidente (…) State pensando di chiamarvi fuori o sostenere qualcuno che ha un passato di denigrazione nei vostri confronti, perché pensate che sia un segno di forza, perché significherebbe essere un uomo?» Non è solo la Cabala a togliere il sonno a Kamala.