Avvenire, 1 novembre 2024
Democratici e repubblicani a caccia di elettori giovani
Fanno di tutto, democratici e repubblicani, per avere i giovani americani dalla propria parte: li bombardano di messaggi sul cellulare, gli fanno recapitare voucher per l’acquisto di tacos, li fanno emozionare con appelli al voto degli influencer. Quelli residenti nello Stato chiave della Pennsylvania, in particolare, sono bersagliati non solo a casa e sui social network ma anche per strada, in profumeria, al bar, all’università. L’appello è lapidario: «Votate, votate, votate». Michael, 21 anni, afroamericano residente a Germantown, sobborgo a nord di Filadelfia, è uno dei tanti ad aver ricevuto per posta un’edizione speciale del fumetto Liberty Knights.
Scritto da Derek Allen, il numero racconta di supereroi in lotta contro le forze del male che hanno imprigionato in frammenti di rubino lo spirito della città per impedire ai giovani di recarsi alle urne. Una trovata creativa per incoraggiare il pubblico «a non avere paura» delle elezioni e di andare a votare. Ha funzionato? «No, non ci vado», sbotta il giovane mentre offre ali di pollo fritte all’amico che lo accompagna nel ritorno a casa dal lavoro. «Nessuno dei due candidati mi convince», comincia a spiegare con tono pacato. Poi, con piglio infervorato, puntualizza: «I proclami di Trump e Harris sono lontani anni luce dalla mia vita. Mi spacco la schiena di fatica, dalla mattina alla sera, e non ho precedenti panali, ma le prospettive di miglioramento sociale ed economico per me e per la mia famiglia sono, in pratica, zero».
Rabbia. Stanchezza. Delusione. C’è tutto questo nelle sue parole: l’essenza di quelle generazioni, Millenium e Z, che, secondo le ricerche demografiche, pur essendo sempre pronte a ribellarsi pensano che le cose non cambieranno mai. Per Michael, il socipio, gno americano di cui i giovani dovrebbero essere legittimi depositari non esiste: «È solo una favola». Mentre si allontana, Penn Square, la piazza del munidicono viene inondata da un corteo di lavoratori in sciopero scortati da uno strombazzante tir della spazzatura che inorridisce gli ospiti all’uscita del Ritz. Molti, tra i manifestanti, sono proprio i ventenni e i trentenni che in questi giorni la politica corteggia all’esasperazione. «Il lavoro ben pagato – così si legge sui loro cartelli – è la nuova frontiera dei diritti civili». Non c’è più tempo, in Pennsylvania, per iscriversi al voto. Il termine ultimo è scaduto il 21 ottobre. La percentuale dei diciottenni che ha registrato in tempo l’interesse a dire la propria, questo i dati dell’associazione Civic Center, è ferma al 55%. Eppure, lo sforzo effettuato dai partiti per avvicinare i ragazzi dell’ultimo anno delle superiori alle urne è stato enorme. Soprattutto per i democratici che hanno rimesso nella partecipazione giovanile la speranza di aumentare l’affluenza, colmare il divario con i repubblicani e cementare l’elettorato di sinistra per gli anni a venire. Malaya Ulan, poeta diciassettenne di origine filippina iscritta alla Science Leadership Academy at Beeber, nel quartiere di Wynnefield, ha messo in versi l’irritazione che a tratti dilaga tra i coetanei pressati dall’urgenza del voto: «Siamo menti di cui prendersi cura o solo numeri per le statistiche?». Lo stradone che, attraversando il fiume Schuylkill, porta al campus della Penn University, una delle più importanti degli Stati Uniti, è tappezzato di volantini elettorali. Il blu dei democratici svetta sulla ruggine dei pilasti dell’High Line, la ferrovia sopraelevata su cui per anni, dal 1934, hanno viaggiato i treni merci diretti a New York. Nick ed Ely, 27 anni lui, 26 lei, entrambi studenti di economia e finanza, hanno le idee piuttosto chiare su chi voteranno il 5 novembre. «Io sto con Kamala», dichiara la ragazza. «Io invece con Trump», incalza l’amico. I due si guardano con gli occhi sbarrati di sorpresa. A smorzare la tensione dell’inaspettato disaccordo, ci pensa un rumorosissimo bus dei “Black Vote Matters” che attraversa la strada. Ely non si aspettava l’outing del collega: «Apprezzo comunque il suo coraggio – ride – non è facile sfidare lo stigma che nel nostro ambiente è spesso associato al trumpismo». Nick, da parte sua, si sente quasi in dovere di precisare: «Sostengo il tycoon per opportunità di business, non per altro». I due si ritrovano a discutere, da veri professionisti, di politiche economiche, sicurezza e benessere. Loro, a differenza di Michael, continuano a credere nel sogno americano. «Sono figlia di immigrati di prima generazione – confida Ely –. In questo Paese, mio padre, colombiano, è diventato avvocato e mia madre, italiana, ingegnere chimico. È grazie al loro duro lavoro, e ai sacrifici dei miei nonni, che oggi posso permettermi di studiare in un’università della Ivy League. Non posso e non voglio rinunciare all’idea di poter costruire un futuro ancor più prospero». L’American Dream, sintetizza, «deve vivere»