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 2024  novembre 01 Venerdì calendario

Reportage tra i musulmani del Michigan

Su Josep Campau Street passano donne interamente velate. Una di loro porta un cesto sulla testa. Un grosso suv nero si ferma, l’uomo alla guida la riconosce, le offre un passaggio. Lei sale e tira il velo ancora più su: per gli occhi resta una piccolissima fessura. Poche strade più avanti, l’uomo che entra nel municipio di Hamtramck ha una tunica grigia, i sandali ai piedi, un copricapo arabo sulla testa: è venuto per votare. C’è un banchetto all’ingresso al quale ci si può registrare e compilare la propria scheda per le elezioni di martedì prossimo. Il Michigan è uno stato chiave. Questa cittadina alle porte di Detroit ha poco più di 28 mila abitanti, a inizio ’900 erano soprattutto americani di origine polacca, negli anni 2000 è invece cominciata un altro tipo di immigrazione: dallo Yemen, dal Bangladesh, dalla Bosnia. Così Hamtramck è diventata la prima città a maggioranza musulmana degli Stati Uniti. E il suo sindaco, Amer Ghalib, è stato il primo della comunità islamica ad annunciare il suo aperto sostegno per Donald Trump.Ghalib non è in ufficio. Viene ogni tanto, bisogna mandare una mail, ma alla mail non risponde. A chi gli ha chiesto perché ha scelto di sostenere Trump, ha detto – in queste settimane – che per prima cosa l’ex presidente degli Stati Uniti lo ha ricevuto. Ha ascoltato le richieste della sua comunità. È certo – Asser Ghalib – che Trump «metterà fine al caos in Medio Oriente», mentre «l’attuale amministrazione non ha fatto nulla e non ha costretto Netanyahu a un cessate il fuoco». Ma non è la sola ragione.Khaled Turaani è un avvocato, uno dei leader della comunità musulmana del Michigan. Conosce Ghalib, non è d’accordo con lui, ma spiega che per lui e per la gran parte della sua comunità è impossibile votare per Kamala Harris. Perché «sta sostenendo un genocidio». Secondo Turaani, il 70 per cento delle bombe che hanno ucciso decine di migliaia di palestinesi sono state fornite dall’amministrazione Biden. Che non solo non ha fermato Netanyahu, ma «ha mentito. Il presidente ha parlato di bambini decapitati senza preoccuparsi di correggere quando quelle notizie sono state smentite dagli stessi israeliani». Turaani non vuole sentire parlare né di Hamas né del 7 ottobre. Chiedergliene conto, sostiene, «è un modo per giustificare il genocidio in corso». Harris «non ha neanche chiesto un immediato cessate il fuoco, non ha fatto nulla per i palestinesi e noi non abbiamo alcuna fiducia che possa fare diversamente una volta eletta. Penso che Trump sia altrettanto pericoloso, per questo molti di noi non voteranno né l’uno né l’altra».A Josep Campau Street c’è anche il negozio di articoli vintage di Karen Majeski, che per sedici anni è stata sindaca di questa cittadina. Casette di legno e in bronwnstone con portici curati, negozi in gran parte arabi, ma che richiamano anche le origini polacche di un centro venuto su – come la vicina Dearborn – a ridosso della grande fabbrica di Henry Ford. Che ha richiamato immigrati da tutto il mondo promettendo il sogno americano. Majeski – 69 anni, un dottorato in Storia americana all’università del Michigan – dice che la decisione del sindaco Ghalib non la sorprende, «ma è stato come un pugno nello stomaco». Nel negozio – pieno di oggetti, scarpe, gioielli, borse, vestiti di ogni tipo e di ogni provenienza – campeggia uno striscione rosso del movimento femminista. «Il sindaco Ghalib aveva già fatto delle iniziative con estremisti vicini a Trump e lo aveva fatto principalmente in opposizione al movimento Lgbtq e ai diritti delle donne». Secondo l’ex sindaca, che è stata per due anni anche membro del consiglio comunale – oggi spaccato a metà tra sostenitori di Trump e Harris – la decisione di Ghalib e di un pezzo di mondo musulmano ha a che fare «più con la misoginia e l’idea che ci sia una famiglia naturale da difendere, che con la guerra a Gaza. Perché sanno benissimo che con Trump quella guerra non potrebbe che peggiorare». Allo stesso tempo «non voglio fare di tutta l’erba un fascio. I musulmani non sono un blocco monolitico. Qui vicino, a Dearborn, la situazione è diversa perché la loro provenienza è molto diversa. Da noi in questo momento prevale la componente yemenita, più conservatrice. Ma si tratta dei genitori. Le nuove generazioni, quelle che vanno al college, potrebbero pensarla in tutt’altro modo. E votare di conseguenza. Non sono affatto convinta che ad Hamtramck vincerà Trump e sono certa che comunque non saranno i musulmani a regalargli il Michigan, dove invece penso che a prevalere sarà Kamala Harris».Dearborn è la città in cui è nata la Ford Motor Company. Matthew Stiffer è il direttore del Center for Arab Narratives, dentro l’Arab American National Museum, nato vent’anni fa. «Nella città metropolitana di Detroit – spiega – la comunità araba è molto grande. E all’interno di questa comunità ci sono molti musulmani, ma anche cristiani. A Dearborn ci sono il 70 per cento di arabi, a Detroit e dintorni ne vivono 300 mila. Questo è l’unico museo del Paese dedicato a raccontare la storia degli arabi americani: facciamo mostre, cineforum, concerti. Cerchiamo di connettere il pubblico americano con la storia della sua comunità araba».Una comunità, Stiffer lo conferma, che a partire dal 7 ottobre sta vivendo momenti difficili: «Il problema della Palestina, dei diritti dei palestinesi, è sempre stata la questione numero uno per la comunità. Non importa quando siano arrivati in America, di che religione o provenienza siano, è qualcosa di molto sentito. Quel che accade a Gaza, in Libano e in Yemen è un dramma per la comunità. Gli arabi americani guardano al loro governo mentre non fa niente per migliorare la situazione. Si chiedono: quindi io non conto? Il mio voto non conta? Da qui deriva la loro frustrazione. Io non so quanti arabi americani voteranno e per chi voteranno. Quello che so è che in questo museo invitiamo le persone a votare: è il solo modo di avere un peso come comunità, di chiedere ascolto, di fare la differenza».All’Haraz Coffee House di Dearborn, come al Qitam Café di Hamtramck, ci sono ragazzi di tutte le età vestiti nei modi più diversi: donne col velo e senza, uomini con l’abbigliamento arabo o totalmente occidentale. Sia tra chi serve, che tra i clienti che lavorano al computer o semplicemente siedono guardando fuori dalla vetrina. Il Qitam è anche una libreria: ci sono libri per bambini in arabo, il Corano gratis in spagnolo e in inglese, giochi in legno e, ovunque, volantini e giornali in sostegno del popolo palestinese. «Ma qui – spiega ancora Karen Majeski – non ci sono tensioni tra i cittadini. Se litighiamo, è per il parcheggio o la spazzatura sul retro, non per motivi politici. Sono città pacifiche, dove le persone sono arrivate da tutto il mondo per trovare un lavoro e una casa, costruirsi una vita. Sono certa che questo non cambierà. Chiunque vinca le elezioni».