la Repubblica, 1 novembre 2024
C’ero anch’io, ad Avetrana, nel 2010
C’ero anch’io a Avetrana nel 2010, ed è come se, penetrando in questa magnifica fiction in quattro puntate, tutte in una notte, ci fossi ritornato, provando lo stesso disagio di quei giorni in cui imparammo, anche noi giornalisti di penna, che i linciaggi in Italia li fa la televisione.Ma prima va detto che Paolo De Vita è memorabile e emozionante nel ruolo del dolce mostro, lo zio Michele Misseri, il colpevole senza colpa al quale Kafka dedicherebbe un racconto di una pagina, lo zio che si accusa da solo anticipando l’astrusità della legge: “Signor maresciallo, ho visto quel telefonino per terra e ho avuto un calore, è quello di Sarah. Perciò ve l’ho portato”.De Vita e Vanessa Scalera, che interpreta la zia Cosima, quasi quasi se la battono con i diavoli del grande cinema internazionale, che so, Al Pacino e Helena Bonham Carter. E come a smentire, con un po’ di ironia, il titoloQui non è Hollywood, aggiungo che il regista Pippo Mezzapesa sembra un piccolo Martin Scorsese quando fa crescere l’invadenza dei luoghi e delle atmosfere come scenario della crudeltà e dell’orrore, sino allo strangolamento di Sarah che, a partire dal modo oscenamente televisivo in cui venne scoperto, diventa colpa collettiva e inespiabile, mentre Cosima ascoltaNel soledi Al Bano e Sarah Who wants to live forever dei Queen.Il regista dovrebbe ringraziare il giudice di Taranto che, con una censura da Pro loco, ha tolto “Avetrana” dal titolo, strappandola alla vaga geografia dei delitti e rimettendola nella carta d’Italia.Vorrebbe proteggere i luoghi da quel che vi accade, liberare Firenze dal “mostro di Firenze”, Cogne dalla villetta, Garlasco dal “delitto di Garlasco”. Ebbene, senza questa stramberia nessuno si sarebbe ricordato che Avetrana non è un “non luogo”, ma l’entroterra salentino dove Ernesto de Martino scoprì la crisi della ragione, la superstizione, la morte e il pianto.Sulla strada che attraversa mille paesini tutti uguali anche la serie mostra i centri di devozione che vidi io, tollerati ma non riconosciuti dalla chiesa: la statuetta di gesso di san Cosimo, vicino Manduria, e la madonna vestita di bianco cheappariva (appare ancora?) il 23 di ogni mese.Con sapienza cinematografica la fiction mostra che in questo pasticcio meridionale i testimoni di Geova, vale a dire la mamma di Sarah e le sue amiche, erano i soli a coniugare il sentimento della fede e la forza della ragione. Pensate: erano l’illuminismo di Avetrana.E via via che si va avanti nel racconto, gli occhi di Cosima diventano i veri protagonisti dellaserie, dominando tutto, non solo le pulsioni di Michele. Chissà come ha fatto Paolo De Vita a cambiare mille volte la faccia di Michele, sempre accordando i suoi occhi agli occhi di lei. È malato e vittima quando si rintana nel suo scantinato, animale buono quando si consegna al maresciallo come un vitello al mattatoio. È schiavo di una tirannia femminile quando promette di dire “quello che devo dire”, arcaico e prelogico quando si esprime insuoni gutturali, benevoli grugniti e monosillabi. Alla fine è persino saggio come un professore quando, in prigione, ride delle matte lettere d’amore che riceve e riconquista felice la mano della sua Cosima, la donna che tra tutte quelle ragazzone larghe ed eccessive è la grande mamma di Avetrana, la mammona e la mammasantissima, cibo e amore animale per la figlia Sabrina, che è condannata con lei all’ergastolo, l’altra femmina-mammella, origine del mondo e destino dell’uomo. Ed è interpretata da un’altra attrice che non ti aspetti, Giulia Perulli, che si è lasciata ingrassare 22 chili.Così, con la forza del racconto si capisce che non è solo orrore ma che, tra i tanti delitti di gelosia ossessiva e di sesso concentrazionario, è speciale l’assassinio di Sarah, che Federica Pala riesce a restituirci più piccola dei suoi 15 anni, un soldo di cacio di quaranta chili per un metro e cinquanta che, malgrado tutta la buona volontà che ci mette per rendersi attraente, parla pochissimo, proprio come lo zio che dice di averla uccisa e violentata.Dunque è come se l’altra notte io fossi ritornato al bar Centrale tra la folla che, con birre e lupini sul tavolo, aspettava il collegamento in diretta diStudio aperto, come se avessi di nuovo percepito la “funesta docilità” manzoniana e la passione dei linciaggi, il rogo dei diavoli e delle streghe tra i corvi diChi l’ha visto?, della Vita in diretta e dei tg. Nella Cartolibreria Marcucci, in vetrina, c’era un libro della Newton Compton, di Mastronardi e Villanova: Madri assassine. Ricordo l’intervista che Enrico Lucci delleIenefece a Giuseppe, il vicino della casa degli orrori: “Lei è d’accordo con Crepet o con Morelli? Non mi dica che non li ha visti da Vespa?”. E lo sventurato rispose: “Io ho una mia tesi, e l’ho scritta in una lettera”. A chi l’ha spedita? “La darò a qualcuno di voi, a qualcuno della televisione”.La serie è giustamente spietata con la televisione e con le sue dive, che furono spietate con Avetrana. Da quel delitto la tv è entrata per sempre nel pasticcio della questione meridionale. Avamposto della modernità nella selvatichezza di tutte le Avetrana d’Italia, ha sostituito la magia come risposta alla deiezione dell’essere, all’angoscia della marginalità.