Corriere della Sera, 1 novembre 2024
Un linguista ha letto il nuovo romanzo di Sandro Veronesi
Si fa per dire. Nel senso che le parole sono la sostanza stessa di cui è fatta la nostra storia. Danno un nome alle cose e spesso è un nome tutto nostro, che – dietro l’apparenza del vocabolario comune – evoca sensazioni ed emozioni assolutamente speciali, private. «Per anni, quando ancora andavamo al mare in quel posto ma anche dopo, quando non ci andavamo più, io e mia sorella quell’odore l’abbiamo chiamato l’odore del sole». La forza delle parole è anche questa e sta nella loro impressionante capacità di evocazione: odori, sapori, rumori, colori incastonati insieme in qualche sillaba. Nessuno lo sa meglio di chi la vita – la propria vita – l’ha voluta raccontare, facendone appunto una storia. Proprio come il Gigio Bellandi a cui Sandro Veronesi dà voce nel suo recente Settembre nero (La nave di Teseo).
La questione è messa in chiaro fin dalla prima frase («Per cominciare a raccontarvi questa storia») e poi sottolineata a più riprese («un punto nodale di questa storia», «la scena simbolo di questa storia»), ininterrottamente, fino all’ultimo capitolo («per dare un lieto fine a questa storia che lieta non è»). Si fa per dire, certo, ma la vera questione è trovare le parole per dirlo. «Faccio bene a ricordare, a ricostruire. Più lo faccio e più riesco a vedere il ragazzo che ero, e vederlo vale molto più del saperlo, per me che sto cercando di dirlo». Veronesi, d’altra parte, fa del suo protagonista uno straordinario raccontatore, donandogli il passo e il tono tipici del narratore orale.
Quel narratore che si rivolge a chi lo ascolta chiedendogli di immaginare qualcosa o semplicemente di aver fiducia in lui («credetemi»); quello che va avanti e indietro, accelera e rallenta a suo piacimento; che gioca sulle ripetizioni («quel mio primo contatto con la pornografia accentuava in me un ulteriore desiderio di pornografia che la pornografia non era in grado di soddisfare») e si compiace di usarle come epiteti (più volte tornano, ad esempio, «i raggi zenitali del sole» o le «risate argentine»; più volte la quintessenza dell’io diventa «una stilla di me»). Così che – pagina dopo pagina – il racconto procede quasi per travaso, per contagio, in una condivisione capace di creare una fortissima empatia. «Ora che vi ho confessato qual era la mia vergogna avete davvero tutti gli elementi per capire chi ero, quell’estate – e io con voi». Io con voi.
La nostra storia è fatta di parole: basta accorgersene e nulla sarà più lo stesso. Tanti anni fa, in una pagina di Live (1996), Veronesi rievocava la figura di suo nonno: «con lui, nei posti, entrava tutto un plotone di vocaboli in estinzione o ricercati, una vera lingua salvata, della quale purtroppo ricordo solo pochi frammenti: la milizia, il frigidèr, il restoràn, il parabrìs, trichesvaine, Margherìt o tognino per dire tedesco, e poi sbafare, fifa, tafanario...». Un lessico famigliare depositato nella memoria. Non tanto in un’epoca, però, quanto in una dimensione affettiva: una bolla, in questo caso, di nostalgia. Le parole creano mondi e quei mondi sono abitati dalle persone che le usano.
Settembre nero è un romanzo di formazione: racconta il passaggio, brusco in questo caso, all’età della consapevolezza. Tutto avviene in pochi giorni, nell’estate del 1972, quando il protagonista ha dodici anni. Ma, prima della catastrofe tante volte evocata da chi racconta e dunque attesa da chi legge, tanto sapientemente procrastinata, sospesa, rinviata, prima ancora di quel tragico scioglimento della vicenda, nel racconto di Gigio Bellandi c’è un momento davvero decisivo. Il momento in cui lui si trova nella villa di Astel Raimondi, la ragazza con cui sta vivendo l’indicibile esperienza del primo amore («La verità è che semplicemente non avevo le parole per dirlo»). E, salendo insieme a lei nella casetta sul cedro, vede per la prima volta da fuori – dall’alto, in effetti – la propria casa, famiglia, vita. «Fu come accorgersi d’un tratto della scala su cui si era fin lì svolta la mia esistenza: il mondo entro il quale avevo sempre vissuto era minuscolo».
Quel mondo, appunto, era fatto di parole. Strati di parole concentrici avvolgevano in un bozzolo la vita di Gigio Bellandi. Il nucleo era formato dalle «parole preferite» che lui segretamente scriveva su un quaderno e ancor più segretamente ripeteva all’infinito, da solo, guardando il muro della sua camera e annotando le immagini che ne sprigionavano. «Popolo. Membrana. Muflone. Sbadiglio, Taccuino. Deriva. Puledro. Salmastro. Telefunken. Babilonia. Distillato. Cassazione. Sceneggiatore. Bambola, Papavero. Infografica». Lo strato successivo era quello del lessico famigliare, alimentato soprattutto dalla figura mitopoietica del padre – prestante, energico, affabulatore, seduttivo, «quello che lui diceva per me era legge, c’era poco da fare» – al quale viene attribuita tutta una serie di espressioni: lotta giapponese per judo, martinetti per verricelli, panfilo per yacht, un olio per il mare calmo, fiocco pallone per spinnaker. In misura minore anche da altre figure della famiglia, come quello zio Giotti che a un certo punto compare in scena con un ruolo non secondario: da lui viene «il modo di dire che imperversava nel nostro lessico famigliare, quando qualcuno lasciava qualcosa nel piatto: “O chi sei, lo zio Giotti?”». Di questo secondo strato fa parte anche la lingua inglese: lingua materna (la madre del protagonista è irlandese), destinata – nella tumultuosa rivoluzione di quei giorni – a diventare lingua delle prime esperienze sessuali, grazie ai testi delle canzoni tradotte per Astel.
L’ultimo strato – quello più esterno, condiviso anche con alcuni coetanei – è il lessico dello sport e il suo rosario di nomi da sgranare sfogliando l’album di figurine, giocando a biglie sulla spiaggia, ascoltando la radio o guardando la televisione in bianco e nero. Non sarà certo un caso che la definitiva rottura di quella bolla protettiva venga annunciata, in quegli stessi giorni, dalle immagini della cerimonia inaugurale dell’Olimpiade di Monaco, viste per la prima volta – a casa di Astel, in uno strano quadretto familiare che comprende i genitori di lui e i genitori di lei – su un televisore a colori. «Perché è vero, è così, e non esiste un modo migliore per dirlo: quando piomba su quel vaso l’esperienza lo colora ma anche lo intacca, lo incrina; ed è vero, anch’io ero così». Le parole creano mondi, le parole li distruggono e la parola che manderà tutto in frantumi sarà proprio quella: io. «Non dirlo, e tutto andrà avanti come è andato fin qui».