Corriere della Sera, 1 novembre 2024
Biografia di Dario Franceschini, raccontata da lui stesso
Dario Franceschini, chi erano i suoi genitori?
«Mio padre era stato un giovane partigiano cattolico ferrarese, poi membro del Comitato di liberazione nazionale e poi nel 1953 deputato della Democrazia cristiana per una legislatura. Mia madre, guida turistica e casalinga, era figlia di un fascista, un funzionario onesto della Repubblica di Salò, in gioventù amico di Italo Balbo».
Suo padre partigiano e suo nonno fascista si odiavano?
«Al contrario, si volevano bene. Mio nonno, Giovanni Gardini, che era stato podestà di San Donà di Piave, non aveva fatto nulla di male, non si era macchiato delle nefandezze dei fascisti e aveva finito per aiutare parecchi partigiani. Diciamo che la ricomposizione nazionale dopo la fine del fascismo l’avevo vissuta già dentro casa mia. Finita la guerra, però, mio nonno era scappato in Abruzzo per evitare ritorsioni; mia mamma bambina, andando a scuola, leggeva sui muri la scritta “a morte Gardini”, riferita ovviamente al padre».
Hanno fatto in tempo a vedere il figlio, cioè lei, tra i potenti della politica italiana?
«Mio nonno no, perché è morto nel 1988. Mio padre invece ce l’ha fatta a vedermi segretario del Pd e mia mamma anche ministro».
Il suo rapporto col potere?
«Figlio dei loro insegnamenti. Quindi, di totale disincanto».
Cioè?
«Il potere è una cosa come un’altra. E come tutte le cose oggi c’è, domani non c’è più, dopodomani chissà, comunque fa lo stesso».
Le sue passioni giovanili?
«Conducevo una trasmissione dedicata alla musica jazz su una delle prime radio libere di Ferrara, Radio Elle. Il mixer era fatto di latta, i dischi li prendevo dalla collezione di mio papà».
Per un ragazzo, il jazz non era una passione troppo senile?
«Il jazz ha un pregio e un difetto insieme: piace o non piace. A me piaceva e piace».
Ferrara terra di confine e teatro di grande letteratura. La terra di Giorgio Bassani.
«La casa di Bassani, dalla parte di dietro, affacciava su quei campi da tennis descritti nel libro sui Finzi Contini. La mia stava a cinquanta metri e affacciava su quegli stessi campi. Da ragazzo vedevo la mamma di Bassani mentre andava a fare la spesa, lui viveva già a Roma».
Altre passioni?
«Sbandieratore della mia contrada, Santa Maria in Vado, al palio di Ferrara. Andai a insegnare a sbandierare a Borgo Velino, in provincia di Rieti, chiamato da una famiglia ferrarese che si era trasferita lì. Era l’estate del 1974: dovevo starci una settimana, tra l’altro malvolentieri, rimasi tre mesi e sono tornato per tre anni. Oggi il gruppo degli sbandieratori di Borgo Velino, nato da quell’esperienza, ha compiuto cinquant’anni».
Che studente è stato?
«Politicizzato. In una provincia rossa come Ferrara, io facevo parte della minoranza democristiana. Alle prime elezioni studentesche del 1974, al Liceo Scientifico Roiti, considerato una roccaforte dei comunisti e dei movimenti, vinse la nostra lista centrista. Segno che c’era una maggioranza silenziosa».
Voto di maturità?
«Trentasei, pensavo solo alla politica. Ma ho preso centodieci all’università, laurea di Giurisprudenza, tesi in storia delle dottrine politiche. A un certo punto, m’ero messo in testa che avrei fatto lo storico».
Lei è sempre stato democristiano?
«Sono entrato nel partito quando Benigno Zaccagnini divenne segretario. Fu un elemento di rottura, per un partito considerato immobile e votato solo al potere, che da quel momento si parlasse di don Primo Mazzolari, di rivoluzione cristiana, di questione morale. Ho impressa una copertina di Panorama di quel periodo. Titolo: “L’onesto Zac”».
Anche lei, insomma, un ragazzo di Zac.
«Ho promosso, mesi fa, la rimpatriata con tutta quella generazione che era entrata nel movimento giovanile democristiano al congresso di Maiori. Abbiamo prenotato lo stesso albergo di allora e sono venuti tutti: da Renzo Lusetti a Enrico Letta, da Luca Danese a Mauro Fabris, da Pierferdinando Casini a Franco Gabrielli, da Gianfranco Rotondi a Simone Guerrini, oltre a persone che non avevo più incontrato da allora».
I suoi amici chi sono?
«Soprattutto quelli di Ferrara. Gli alberi piantati prima sono quelli che hanno le radici più solide. Ogni anno facciamo un viaggio all’estero, solo maschi. E non ne ho mai perso uno, neanche da segretario del Pd o da ministro, quando si trattava di sparire dalla circolazione mentendo sulla destinazione».
Dove siete andati?
«Non glielo dico».
Sempre stato un democristiano che guardava a sinistra?
«Ho sempre pensato che democristiani e comunisti, per quanto fosse aspro il confronto politico, avessero un terreno di valori comuni che era quello dell’antifascismo, della Resistenza e poi della Costituzione scritta assieme. All’assemblea che segnò la dissoluzione della Dc, all’alba della Seconda Repubblica, dissi citando De Gasperi che erano quarant’anni che guardavamo a sinistra e che era arrivato finalmente il momento di andarci. Pensi che, molti anni prima, da ragazzo, avevo organizzato a Ferrara un dibattito sulle prospettive di Dc e Partito comunista. Relatori: Sergio Mattarella e Massimo D’Alema».
Lei ha scritto cinque romanzi. Di cui l’ultimo, «Aqua e tera», che racconta la storia d’amore tra due ragazze durante il fascismo, è appena uscito. Come funziona, di notte scrive romanzi e il giorno pesa le tessere del Pd? O viceversa?
«Scrivere è sempre stata un’aspirazione e una passione. La politica anche. Non potendo avere due vite, ho pensato di fare entrambe le cose».
È stato semplice?
«All’inizio era un problema. Scrivevo i romanzi pensando sempre a come potessero essere letti, a che significato politico potessero dargli i lettori, se venissero considerati autobiografici o meno, a che impatto poteva tutto questo avere sul me politico, se fossero controproducenti o no… Poi, da un certo punto in poi, mi sono liberato di questa catena. In Francia, per esempio, dove i miei romanzi li pubblica Gallimard, mi conoscono come scrittore e non come politico».
La cosa le fa piacere?
«Penso che un romanzo debba essere valutato a prescindere dall’autore. Non mi piace, per esempio, che nel parlare di un libro a una presentazione o in televisione venga interpellato l’autore. Dovrebbero parlarne solo gli altri».
Ne verrebbero fuori parecchie stroncature.
«Un programma su libri raccontati da altri che potrebbero essere anche stroncati? Magari! Sarebbe bellissimo e avrebbe molto successo».
«Aqua e tera» è una storia d’amore di donne. E lei ha sempre vissuto circondato da donne?
«Tutte femmine, figlie e nipoti. Le donne che racconto nei miei libri sono senz’altro figlie di quelle che ho incontrato nella vita. Prenda Aqua e tera: dove gli uomini sono mediocri e negativi, le donne hanno una grande forza, morale e fisica. Alla luce della mia esperienza, posso dire di ritrovarmi nella definizione di Groucho Marx: gli uomini sono donne che non ce l’hanno fatta».
Dieci anni fa ha avuto un infarto: la malattia le fa paura?
«Le malattie fanno parte della vita. Il giorno prima sei invincibile, dal giorno dopo non lo sei più».
La cosa la spaventa?
«Ho capito che la scoperta della fragilità spaventa molto più della fragilità stessa. Alla seconda si reagisce perché comunque la malattia è parte della vita. Mi spiego meglio: alla malattia certamente bisogna reagire, si deve combatterla. Ma comunque prima accettarla, sempre».
Lei prega?
«Di fronte a una domanda così personale forse le avrei chiesto di fermarsi prima. Comunque, la risposta è sì».
L’aldilà come lo immagina?
«Immaginarlo prevede uno scontro tra ragione e fede. Con lo strumento della ragione io lo immagino in un modo, lei in un altro. La fede, invece, ci dice che c’è qualcosa che non possiamo immaginare».
Chi sono i personaggi che l’hanno guidata, chi c’è nel pantheon di Dario Franceschini?
«In tanti ma ne cito solo tre: Garcia Marquez, Benigno Zaccagnini, Francesco de Gregori».
Marquez perché?
«Perché ho capito che la vita di chi ha letto Cent’anni di solitudine si divide in due parti: prima di averlo letto e dopo averlo letto. O quantomeno è quello che è successo a me. Si capisce la meraviglia della scrittura, il suo miracolo: le cose più assurde diventano possibili, quelle ordinarie, straordinarie».
Zaccagnini?
«Si parla sempre, e giustamente, di Moro e del suo rapporto con Berlinguer. Ma senza Zaccagnini, senza l’entusiasmo dei giovani per Zac, quel sangue nuovo in quel corpo, la Dc non avrebbe retto quella posizione della solidarietà nazionale né l’impatto col terrorismo, come poi ha fatto».
Rimane De Gregori.
«Una strofa della sua canzone, Terra e acqua, l’ho messa nell’esergo del mio ultimo romanzo. “Terra e acqua /acqua e terra / ecco quello che ho visto io”».
Solo per questo?
«No. Le parole di De Gregori hanno scandito la mia vita, hanno formato un’intera generazione. Prenda Atlantide: “Conoscete per caso una ragazza di Roma / la cui faccia ricorda il crollo di una diga?”. La faccia di una donna che ricorda il crollo di una diga. Si può dirlo meglio di così?».