Corriere della Sera, 1 novembre 2024
Biografia di Daria Colombo raccontata da lei stessa
Daria Colombo, che ricordo ha della sua infanzia?
«Vivevamo a Verona e mia nonna fece una cosa geniale: comprò un palazzo e sistemò un figlio per ogni piano. Così io sono cresciuta in una famiglia non solo allargata, ma anche unita. Più unita di così!».
Nata nel 1955, suo papà è stato Vittorino Colombo, importante nome della Democrazia cristiana.
«Mio padre era per me un faro di etica. Nonostante fosse un politico conosciuto, non ha mai dimenticato di essere stato un partigiano. Un giorno mi diede una lezione morale. Ero andata a fare la coda in un ufficio pubblico, quando arrivò il mio turno e l’impiegato vide il mio nome, mi disse: “A saperlo le facevo saltare la fila”. Tornai a casa e lo raccontai a papà. Lui mi guardò severo: “Non azzardarti a farlo mai”».
Nel suo nuovo libro, «Il cielo su via Padova», a guidare la protagonista, Letizia Monti, è un filo invisibile fatto di etica e senso di responsabilità.
«È una donna ferita nel profondo da una separazione che, però, finisce per ritrovare se stessa in un quartiere, via Padova appunto, molto diverso dal suo ambiente alto borghese».
Lei ha fatto il Sessantotto.
«Sì, ma non ero d’accordo su tutto. Per esempio non mi piaceva affatto che le donne passassero sempre in secondo piano quando si trattava di prendere delle decisioni. “Gli angeli del ciclostile”, era così che si diceva, no? Ma, d’altra parte, non sono mai stata una femminista in senso solo teorico: quando sono diventata delegata del sindaco Sala per le Pari opportunità di genere ho messo da parte la teoria e abbiamo aperto i Centri Milano Donna».
Presidi sul territorio.
«Una storia su tutte. Viene da noi una donna, capiamo subito che in casa c’è un problema. Lei dice al marito che va a seguire dei corsi di cucito, cosa che in effetti in qualche centro si fa, ma gli tiene ben nascosto che dietro al cucito c’è un percorso di crescita personale, di confronto con altre donne. È questo che gli uomini violenti temono».
Anche la Letizia del suo romanzo si lascia andare e cerca il contatto delle persone del nuovo quartiere, una taumaturgia umana.
«Qualche volta il coraggio per cambiare si trova così».
C’è una lezione appresa negli anni Sessanta e Settanta che le va di ricordare?
«Conobbi Franco Basaglia e mi disse una cosa che non dimenticherò mai: “Gli individui sono persone che esistono al di là della malattia”. Mai avrei pensato che quelle parole mi sarebbero state di conforto un domani».
La voce di Daria Colombo si incrina: il dolore per la scomparsa del figlio Arrigo, uno dei tre avuti con il marito Roberto Vecchioni, brucia ancora forte: il giovane è mancato nel 2023 a soli 36 anni, per una malattia. La famiglia ha chiesto il più completo riserbo su questo lutto.
Quando decise di trasferirsi a Milano?
«Nel 1981, studiavo storia del teatro. Recitavo in qualche film, ogni tanto mi chiamavano per sfilare, ma poca cosa. Oggi si fa fatica a immaginarlo, ma a quei tempi moda, teatro e arte a Milano erano una cosa sola. Le sfilate erano eventi culturali a tutti gli effetti. Le maison collaboravano con le compagnie teatrali».
E poi?
«Poi conobbi Roberto e tutto cambiò».
Come vi siete conosciuti?
«Ci presentarono a una festa, lui era tra i premiati, io ero lì per alcuni amici che facevano cinema. Parlammo a lungo, poi la mattina dopo, alle sette, suonò il telefono di casa».
Orario da professore, prima di andare a scuola.
«Mi disse: “Pronto, ciao Daria sono Roberto. Volevo dirti che ieri sera sono stato benissimo, ecco vorrei stare bene anche questa sera e tante sere a venire”. Capii che, a modo suo, mi stava invitando a cena».
Be’, è pur sempre un poeta.
«Io però sono più ispida, più prosaica».
Le scriveva poesie?
«All’inizio sì, diverse».
State insieme da 43 anni, avete avuto tre figli (oltre ad Arrigo, ci sono Carolina ed Edoardo, ndr).
«L’amore – e aggiungo “per fortuna” – non è sempre uguale a se stesso. Io e Roberto abbiamo attraversato tante fasi differenti. Ci sono stati momenti in cui lui non faceva nulla senza il mio placet, altri in cui ero io ad aver bisogno del suo parere. Altri ancora in cui ci siamo ricavati degli spazi autonomi».
In fondo, vuol dire crescere insieme.
«Anche nel romanzo Letizia cerca uno spazio nuovo, diverso. Qualche volta è necessario per ritrovarsi».
Quando vi siete sposati, Roberto aveva già una figlia, Francesca. Com’è stato e com’è il rapporto con lei?
«Rispondo con una sua affermazione, che ancora oggi mi riempie d’orgoglio. Una volta Francesca ha detto: “Certo, amo mio padre e mia madre, ma a me la famiglia me l’ha data Daria”. Per me è una persona importantissima, spesso mi sono consultata con lei in tante situazioni».
Vi siete sposati in municipio nell’89.
«Quando ci siamo conosciuti Roberto si stava già separando dalla sua prima moglie».
Nel 2002 nacquero i Girotondi.
«E non tutti sanno che nacquero a casa mia. Ricordo ancora oggi quella serata, quando ci riunimmo tra amici e il discorso cadde inevitabilmente sulle “leggi ad personam”, c’era Berlusconi. L’idea iniziale era quella di circondare il Palazzo di Giustizia, ma eravamo convinti che saremmo stati pochi, quindi prevedemmo di avvolgerlo con del nastro di quelli per i cantieri. Non le dico l’emozione quando ci ritrovammo uniti a centinaia, una enorme catena umana».
Contagiosa, peraltro.
«Il giorno dopo ricevetti una telefonata. Era Nanni Moretti, che voleva fare la stessa cosa a Roma. Ci conoscemmo lì, in piazza. Anni di grande impegno, di ardore».
Berlusconi lo ha mai incontrato?
«No, ma a un concerto di Roberto notai, con stupore, che c’era Veronica».
Lario?
«Sì, venne a salutarmi e insistette perché andassi a casa sua a prendere un tè».
E lei?
«Ero quasi incredula quando mi ritrovai ad Arcore. Seduta nel salotto, circondata dalle immagini di Berlusconi, dai suoi quadri. Mi domandai in silenzio: “Ma che cosa ci faccio io qui?”. Però Veronica si dimostrò gentile e intelligente. Evitammo accuratamente la politica, parlammo dei figli. Da allora non ci siamo più incontrate».
La protagonista del suo libro sarebbe felice di avere un marito come il suo: quel «Grazie amore mio» che Roberto le rivolse in mondovisione, vittorioso sul palco di Sanremo 2011, avrebbe fatto sognare più di una donna.
«Dice?».
Perché, lei non si commosse?
«L’ho già detto, sono ispida e pragmatica, quando tornò a casa lo abbracciai ma gli sussurrai che avrei preferito me lo dicesse nel privato».
Ma Daria...
«Piuttosto, lei lo sa che quella volta Roberto a Sanremo non ci voleva andare?».
Chi lo convinse?
«Morandi, nostro caro amico. Gianni quell’anno conduceva il festival, venne a casa nostra e cominciò a sedurlo: “Dai, hai la canzone pronta, vieni. Mica devi vincere, che ti frega?”. Roberto alla fine si lasciò convincere, ma non era del tutto sicuro, partì pieno di dubbi. Eppure, alla fine, stravinse. E non solo: quella canzone, “Chiamami ancora amore”, è diventata un movimento, metaforicamente. L’editore e amica Rosellina Archinto mi disse che lei non vedeva Sanremo dai tempi di Modugno ma quella sera davanti alla televisione si era emozionata».
Il concerto più memorabile di Roberto?
«Ce ne sono stati tanti. Oggi però non vado più ai suoi spettacoli».
Perché?
«Perché sento il bisogno di tenere separati l’uomo e l’artista. In questo momento della mia vita ho bisogno dell’uomo».
Frequentate i Morandi da tempo?
«Tanto tempo, assieme a lui e a sua moglie Anna Dan una volta abbiamo fatto una vacanza indimenticabile in Libia, quando in quel bellissimo posto si poteva ancora andare. La cosa straordinaria era che lì non li riconosceva quasi nessuno, così trascorrevamo le serate in spiaggia, con Roberto e Gianni scatenati alla chitarra, cantavano canzoni degli anni Settanta».
Una cosa che la rende orgogliosa?
«Il lavoro nei Centri Milano Donna, vado a fare volontariato una volta alla settimana. Ma sono una che si rimbocca le maniche, poca poesia ma cose da fare. Durante la pandemia da Covid ci siamo attivati per cercare e rigenerare dei computer da donare ai quei ragazzi che dovevano fare didattica a distanza. In poche ore ne avevamo recuperati a centinaia. Mi piace pensare che Milano è anche questo, partecipazione».
Com’era Giorgio Gaber?
«Una delle persone che nella vita di tutti i giorni era esattamente come sul palcoscenico».
Umberto Eco lo ha conosciuto?
«Una volta gli sono caduta addosso».
Come?
«Stavo festeggiando in piazza la vittoria di Giuliano Pisapia sindaco di Milano, quando persi l’equilibrio e mi accorsi che, tra la folla osannante, c’era anche lui. Gli finii proprio tra le braccia, ci mettemmo a ridere».
Altri amici cari?
«Voglio molto bene a Ornella Vanoni. Non mi ha lasciata sola un momento dopo la morte di Arrigo. Ornella è generosa, affettuosissima. Dice sempre che ha deciso di morire a 95 anni, io spero che ne viva tanti di più. Quanto a me, vado avanti. Ogni giorno».