Libero, 31 ottobre 2024
La convivenza dell’uomo con gli animali
Nell’Uganda occidentale gli scimpanzé saccheggiano i raccolti di mais e manioca, mangiano banane, manghi e papaie, si abbeverano allo stesso ruscello dove donne e bambini vanno a prendere l’acqua. Sempre più spesso, dal 2005 in avanti, le scimmie rapiscono e uccidono i bambini. «Gli ha staccato il braccio, lo ha ferito alla testa, gli ha aperto la pancia e gli ha tolto i reni», ha raccontato una madre.
Le famiglie di elefanti della Riserva nazionale di Samburu, in Kenya, si spostano guidate da tre stimoli: il sesso, il sostentamento e la sicurezza. Quest’ultima – nella lingua locale si dice “neebei”, vuol dire libertà dal pericolo, dalle minacce, dall’incertezza, dalla paura – è desiderio degli elefanti quanto degli uomini: così capita che, se i primi devastano i raccolti e uccidono il bestiame, i secondi si vendicano crivellandoli di colpi o vanno ancora alla ricerca di zanne da vendere sul mercato nero dell’avorio.
Non hanno niente di regale i leoni nel Serengeti, in Tanzania: uomo e leone, qui, in uno degli ambienti più austeri della terra, condividono le stesse difficoltà. I felini, a causa della frammentazione dell’habitat, del bracconaggio e della riduzione delle prede, diventano molesti, nocivi alla pastorizia e incompatibili con l’agricoltura. Sono tre storie di natura selvaggia, ovvero «numerosi tipi di creature viventi legate fra loro in un sistema di interazioni più o meno intense, caratterizzato da fluttuazioni che dipendono dall’imprevedibilità quasi illimitata del comportamento individuale e dalla prevedibilità limitata delle leggi biofisiche e biochimiche», spiega David Quammen ne Il cuore selvaggio della natura. Dispacci dalle terre della meraviglia, del pericolo e della speranza ( Adelphi, 444 pp., 25 euro).
Una raccolta di ventuno reportage pubblicati sul National Geographic
tra il 2000 e il 2020 che l’autore di Spillover e de L’albero intricato ha realizzato viaggiando per mezzo mondo, dal Mozambico al Cile, dalla Kamchatka al Botswana fino al Gabon.
Parla di wilderness, Quammen, di selvaticità. E infatti il titolo inglese è The heartbeat of wild, «il battito del selvaggio». Non implica necessariamente l’assenza dell’umano, perché ci sono popolazioni indigene che vivono in territori remoti da migliaia di anni senza alterare l’ecosistema, naturalmente interconnesse con l’ambiente circostante. «Fin dal primo reportage» – spiega Niccolò Scaffai, professore di critica letteraria e letteratura comparata all’Università di Siena e autore del libro Letteratura e ecologia ( Carocci, 242 pp., 26 euro) – «è chiaro che solo un equilibrio può garantire il battito del selvaggio. Quammen nel 1999 accompagnò l’ecologo Michael Fay in una spedizione a piedi attraverso le grandi foreste equatoriali dell’Africa, 1.600 km lungo il bacino del fiume Congo. L’intento era ricollegare la diversità biologica delle varie aree creando ponti tra pezzi di ecosistema che l’azione umana aveva frammentato». Contro l’inesorabile erosione dell’umanità, Fay sdipana uno spago sospeso a mezz’aria, all’altezza del petto, in tensione. Chiama l’impresa Megatransect: da transect, tagliare trasversalmente, e mega per la grandiosità dell’area percorsa. Sembrava una smargiassata e invece, nonostante la malaria, le tensioni ai confini nazionali, un elefante nervoso, il progetto ha successo: «Nel Gabon hanno creato una rete di tredici parchi nazionali: 30mila km quadrati, l’11% della superficie del Paese. Non singoli parchi» – sottolinea Scaffai – «a dimostrazione che l’ambiente ha un cuore sano solo attraverso una rete complessa».
Sempre più spesso, però, l’habitat si volge in scena tragica: «Le coltivazioni sostituiscono le foreste e gli animali sono costretti in aree segmentate. I conflitti sono inevitabili quando due specie sussistono nello stesso territorio. Eppure» – prosegue Scaffai – «Quammen suggerisce che si debba pensare non per contrasti ma in termini di ecosistema». L’uomo, cioè, non è “contro”, ma “con”. Anche alle nostre latitudini ci troviamo a coesistere con orsi, lupi, cinghiali. Quammen può aiutarci ad affrontare la sfida nei nostri paesaggi? «Il caso degli orsi è istruttivo» – spiega l’esperto – «perché ci insegna che non possiamo limitarci a immettere nel territorio una specie che era scomparsa. Per evitare le vittime è necessario prevedere gli spostamenti di un animale e quindi gli spazi di cui avrà bisogno. È un impegno politico, prima che naturalistico».
Esiste letteratura che può aiutarci a ripensare la nostra esistenza nell’ambiente? «Italo Calvino fu il primo autore italiano a scrivere romanzi “ecologici”. Lo fece in Palomar, per esempio, e nelle Cosmicomiche. Oggi consiglierei Amitav Gosh, La grande cecità e L’isola dei fucili. E Margaret Atwood: nel racconto It’s not climate change, it’s everything change spiega che il cambiamento non è solo climatico, ma viviamo un cambiamento sociale, politico, culturale. Infine, il premio Pulitzer Richard Powell: ne Il sussurro del mondo” le storie degli umani e degli alberi s’intrecciano e formano l’intera struttura del libro».