Il Messaggero, 31 ottobre 2024
La legionaria che seguì il Vate a Fiume
Donne, è l’ora del vostro risveglio! Non abbiate paura dell’ipocrisia mascherata da morale. Non temete la verità. Non temete le parole. La donna di Fiume non è altro che la madre della donna moderna”. E anche: “Sono giovane. Fumo molte sigarette. Me ne frego della crociata contro il lusso e porto sottovesti di seta. Amo tutto ciò che è bello. Amo quindi prima di tutto l’amore. Poi me stessa. Sono stata di molti uomini”. Queste parole provengono dalla penna di Margherita – detta Fiammetta – Keller Besozzi. Nata nel novembre 1892, fu una delle “legionarie” che seguì Gabriele D’Annunzio nell’impresa di Fiume del 1919. E lo amò, ricambiata. L’epistolario fra i due, custodito negli Archivi del Vittoriale, è stato pubblicato con il titolo Lettere a Fiammadoro.
Margherita era cugina di quel Guido Keller che ebbe un ruolo rilevante nell’impresa. Coraggioso aviatore, dandy “scapigliato” e promiscuo, anticipatore di molte tendenze (era naturalista e igienista), amico di Giovanni Comisso con cui fondò il movimento e la rivista “Yoga”, e di Tommaso Marinetti di cui ricorrono a dicembre gli ottant’anni della morte, Keller verrà poi sepolto al Vittoriale per volontà di D’Annunzio. Come lui fuori dal comune, Margherita fu portavoce di esigenze inedite. Emancipata, proclamò l’autonomia decisionale femminile rispetto alla propria fisicità. Un atteggiamento che precorreva battuta “il corpo è mio e lo gestisco io”. A Fiume trovò l’humus giusto: l’atmosfera era effervescente, libertina, fantasiosa e trasgressiva. Una “festa mobile” o “vita-festa” dionisiaca, fuori dalle convenzioni. Tanto che autori di scuole differenti – Mirella Serri, in riferimento al libro Donne d’avanguardia – vi hanno visto un avant-goût di successive tendenze.
Giordano Bruno Guerri, attento storico dell’avventura fiumana, ha scritto: “i legionari realizzarono in quei mesi di disordinata euforia aspirazioni che, mezzo secolo dopo, avrebbero inseguito i sognatori del 68”. Marcello Veneziani ha sottolineato che “cento anni fa la fantasia andò davvero al potere”. All’epoca, tuttavia, molti si mostrarono critici e persino disgustati, parlando di “postribolo, ricetto di malavita”.
In realtà, Fiume fu un coacervo di istanze e personalità diversissime. Tutto e il suo contrario. Occorre tener presente il contesto storico e le premesse. Non solo Decadentismo ed Estetismo, ma anche i movimenti culturali di rottura di inizio Novecento ebbero influenza sull’impresa. Pesarono i nazionalismi, le frustrazioni del dopo guerra, le divisioni nel governo. Uno slogan fu infatti “Italia ingrata”, ripreso dalla Nave di Teseo nella recente raccolta di scritti di Comisso. Città multietnica, era stata municipio autonomo e Corpus separatum dell’Impero austro-ungarico, ma la maggioranza della popolazione era di lingua italiana. Alla vigilia della I guerra mondiale l’Italia era legata a Germania e Austria-Ungheria, che governava alcune terre “irredente” (non liberate).
Quando i due Imperi dichiararono guerra alla Serbia, l’Italia restò neutrale. Con il Patto di Londra stipulato segretamente nel 1915, scese in campo con la Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia). In caso di vittoria avrebbe avuto Trentino, Venezia-Giulia, Alto Adige, Istria, parte della Dalmazia e altro. L’America non lo aveva sottoscritto e alla Conferenza di Parigi del ’19 alcune promesse furono rimangiate. Appoggiandosi da una parte al Patto, dall’altra al principio di nazionalità, l’Italia chiese Dalmazia e Fiume. Non ottenne nulla e il presidente Orlando lasciò il tavolo di pace.
Le conseguenze furono gravi. I nazionalisti parlarono di “vittoria mutilata” e D’Annunzio organizzò l’impresa. Insieme a lui, esponenti del futurismo, del mazzinianesimo, dell’Associazione Nazionalistica Italiana, del sindacalismo rivoluzionario e dell’esercito. Il 12 settembre 1919 il Vate entrò a Fiume con circa 2600 legionari. Si tennero le elezioni e la lista “annessionistica” vinse. Il governo di Nitti protestò, perché si violavano i trattati. Si cercò una soluzione pacifica, senza esito. D’Annunzio proclamò la Reggenza italiana del Carnaro e promulgò la Carta.
Al governo era arrivato Giolitti, che voleva “normalizzare” i rapporti con la neonata Jugoslavia. Nel novembre 1920 venne siglato il Trattato di Rapallo, che dava all’Italia diverse città ma riconosceva Fiume Stato libero. D’Annunzio non accettò e il governo fece attaccare la città il 24 dicembre. In gennaio l’occupazione finì. La vicenda avrebbe avuto una prosecuzione nel ’24, quando Fiume sarebbe stata annessa all’Italia.
Per quanto breve, l’impresa ebbe un seguito e un eco notevole. Arrivarono Marconi, Toscanini e Marinetti. Comisso. E a Fiume – “Città di vita”, “Controsocietà”, “Porto dell’amore” – giunsero molte donne. Di diverse classi sociali e provenienze. Che volevano sentirsi libere e protagoniste, lavorare, combattere, dare un contributo culturale, vivere fuori dagli schemi, eguagliare gli uomini persino nel vestiario. Donne a volte sin troppo trasgressive, altre pronte a pagare con la vita la loro scelta. A tutte D’Annunzio si rivolse, il 24 dicembre 1919, con il manifesto Alle donne fiumane.