il Giornale, 31 ottobre 2024
Marcuse, profeta di sinistra
L’avevano tanto amato, anche senza leggerlo, il grande Marcuse! Sessant’anni fa, quando uscì in America il suo Uomo a una dimensione, i futuri figli della contestazione si gettarono sulle pagine di quel libro come pesci finalmente liberati dalle acque stagnanti del capitalismo occidentale, e così presto se ne vendettero copie a centinaia di migliaia. Per la verità, in Italia fu necessario aspettare tre anni prima che arrivasse la traduzione per la Einaudi, ma poco importava. Quello era il momento giusto per la semina rivoluzionaria, cui presto sarebbero succeduti il Maggio francese, e poi le mobilitazioni a Milano, Berlino e altrove. Inevitabilmente, il saggio divenne oggetto di innamoramento collettivo, provocato in particolare da una rivelazione sconvolgente.
Non era vero, spiegava Marcuse, che l’Occidente si fondava sulla democrazia. Il suo cuore di tenebra prevedeva, in aggiunta allo sfruttamento capitalistico, un sistema di dominio generalizzato, asfissiante, antiumano, fondato su un uso perverso della «ragione tecnologica». Il sistema cioè si fingeva tollerante nel momento in cui amputava le menti e ne cancellava la creatività, il rispetto per la natura, persino il godimento erotico. Riduceva l’uomo, appunto, a una sola dimensione: quella utilitaria, legata alla logica del profitto e dello scambio. Incapace persino di formulare frasi complesse, che venivano espulse dal sistema globale dei media. Abbruttito dalla produzione di massa e dalla scomparsa dell’alta cultura; asservito al consumismo e impegnato ad assicurarsi beni dei quali non aveva alcun reale bisogno.
Un altro aspetto accattivante e sorprendente del libro, soprattutto per una generazione fortemente influenzata dal marxismo e dal comunismo, era la condanna del sistema sovietico. Marcuse lo accusava di avere ceduto, in omaggio alla legge del potere oligarchico e produttivo, alle stesse pratiche repressive del suo avversario capitalista. Dunque, non era dal socialismo realizzato che bisognava aspettarsi la rivoluzione, bensì dagli esclusi: reietti e stranieri, sfruttati e perseguitati di altre razze, disoccupati e inabili. La portata radicale della predicazione di Marcuse andava al di là della semplice lettura di quelle pagine insieme complesse e immaginifiche; per esserne catturati era sufficiente coglierne i valori quasi metafisici, respirarne gli insegnamenti anche solo nelle discussioni con i compagni di studi (le università divennero l’ideale brodo di coltura di quella che si sarebbe chiamata «Nuova Sinistra»).
Uno in particolare, tra i molti temi agitati dall’autore, fungeva da catalizzatore e forniva l’energia alla spinta militante: quell’aggettivo «totalitario» riferito alle democrazie occidentali. Benché Herbert Marcuse facesse parte della ultra radicale Scuola di Francoforte - i cui santi patroni si chiamavano Adorno,
Horkheimer, Fromm e numerosi altri – nessuno di essi fino a quel momento si era spinto tanto in là. Perché era chiaro che se le democrazie «totalitarie» non si potevano riformare, e se la liberazione non poteva portarla nemmeno l’arrivo dell’Armata Rossa, altro non restava che realizzarla da sé la rivoluzione, a casa propria. Prima con ostracismi ai professori reazionari e interruzione delle loro lezioni, poi con slogan definitivi e partitini militarizzati, quindi con pestaggi e intimidazione degli avversari, e infine con il passaggio alla lotta armata.
Questa grave responsabilità pesa dunque, alla luce degli anni di piombo, sulle teorie critiche di Marcuse, e in particolare su L’uomo a una dimensione. Il cui fascino, soprattutto per i giovani sessantottini, era accresciuto da un richiamo malandrino alla libertà sessuale in tutte le forme possibili. Una delle tesi del libro, infatti, era che la società tecnologica capitalistica provocasse una «desublimazione» dell’eros. E cioè che l’etica borghese lo restringesse alle forme più tradizionali, coniugali e genitali, mutilandone gli aspetti creativi e «polimorfi» (quelli che oggi potremmo ricondurre alla teoria del gender e alla costellazione Lgbtq+). Se a questo si aggiunge il tambureggiante e quasi ossessivo ammonimento sulla possibilità – reale allora come oggi – di una devastante guerra atomica, e sulla necessità di impedirla, preservando la natura minacciata dall’inquinamento del profitto industriale, è facile comprendere la forza del richiamo profetico. In una società come quella italiana di allora, faticosamente uscita dalle distruzioni del fascismo e dalla povertà, lo slogan «fate l’amore e non la guerra» suonava irresistibile.
Se ora sostituiamo il terzomondismo filo-palestinese ai «reietti» di Marcuse, mettiamo il rischio atomico diffuso al posto della guerra fredda, e l’estremismo verde in luogo della «natura incorrotta», possiamo riconoscere ne L’uomo a una dimensione una sorta di sinistra attualità. Ma, alla luce della ragione e non della paura, appare evidente l’errore racchiuso in quelle profezie anti-occidentali. La fusione tentata da Marcuse fra il materialismo dialettico di Marx e la teoria di Freud sulle fonti del piacere, combinata con l’utopia di una pianificazione mondiale in cui arte e scienza, tempo libero e pacificazione collettiva avrebbero dovuto conciliarsi, non si è rivelata soltanto impossibile, ma errata quanto agli esiti finali. La repressione dei dissidenti, lo spreco estensivo delle risorse, l’inquinamento estremo della natura, la militarizzazione dello Stato e la tendenza alla guerra, infatti, oggi sono il marchio distintivo delle vere società totalitarie, quelle islamiste ed eredi del comunismo