il Giornale, 31 ottobre 2024
Recensione de libro sulla Resurrezione di Stefano Zecchi
Il momento più affascinante del romanzo accade quando il mite professor Quareshi spiega a Freddy, citazioni evangeliche alla mano, che «Gesù si è salvato dal supplizio della croce». Nello specifico, sarebbero stati Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo «e il centurione Longino», a disarcionare Gesù dalla croce, a curarlo, insinuandone la morte, a sua difesa. Dopodiché, il Messia avrebbe continuato l’opera di predicazione in India, insieme a Tommaso, l’apostolo inviato a profetizzare in Mesopotamia e in Oriente (come racconta Eusebio di Cesarea). In Oriente, il nome di Gesù muta in Yuz Asaf, «guida dei guariti, perché a lui si riconosceva il dono miracoloso di sanare gli infermi». Seguono le prove del passaggio di Gesù in Afghanistan, Pakistan, Kashmir.
Pare di essere al cospetto di una leggenda ordita da Borges. In Atlas, il suo ultimo libro, il veggente sudamericano suppone che Alessandro Magno «non muore in Babilonia all’età di trentadue anni», ma si arruola come mercenario semplice tra i battaglioni dell’esercito mongolo. Qui, però, vista l’entità del soggetto e le sue conseguenze – il cristianesimo come lo conosciamo, amministrato in una liturgia della colpa e del giogo, sarebbe un’immane montatura – i fatti assumono altro rilievo: ci pare di sfigurare un segreto.
La mole di dati squadernati dal professor Quareshi a supporto della sua tesi impressiona. Gesù sarebbe affiliato ai Nazareni, «un gruppo monastico che aveva un credo e dei comportamenti rituali simili a quelli degli Esseni», affini ai Terapeuti, di cui scrive Filone di Alessandria nel De vita contemplativa. Questi asceti praticavano il digiuno, vestivano di bianco, si radunavano «il settimo giorno» per onorare Dio con canti e danze. Fuggiti dalle spire della vita cittadina, i Terapeuti, edotti nella guarigione dello spirito, si prefiggono di giungere a una «vita immortale e beata... tendono con tutte le forze alla visione dell’Essere e oltrepassano il sole sensibile pur non abbandonando mai questo loro posto» (così Filone). Abitano le sponde del lago Mareotide – o Maryut – presso Alessandria d’Egitto, spazio impossibile a chi non è addestrato alla contemplazione. In loro credeva perfino William Butler Yeats, il sommo poeta d’Irlanda, che cercò di fondere, attraverso il genio lirico, la sapienza orientale in quella ebraico cristiana: «Credo come credevano i vecchi saggi che sedevano sotto le palme, i banani o fra le rocce rese irraggiungibili dalla neve, mille anni prima della nascita di Cristo; credo come credevano i monaci del mare della Mareotide...».
Ma qui rischio di andare per le mie vie. Resta da dire che il cuore del
romanzo di Stefano Zecchi, Resurrezione (Mondadori, pagg. 244, euro 19), è il santuario di Roza Bal, la tomba in cui sarebbe sepolto Gesù. Presso Srinagar, è un luogo piuttosto squallido; o meglio, come scrive l’autore, «un posto così povero, umile, per custodire la storia grandiosa di chi non ha mai cercato gloria, onori, predicando amore». Lascio il lettore a smanettare su Wikipedia: scoprirà la setta degli Ahmadiyya e altri dati in quantità. A Zecchi – se non ho capito male – interessa tutt’altro, cioè sondare la genuinità del cristianesimo delle origini, che precede la costituzione di una chiesa, di un potere ecclesiastico, di una qualche coercizione.
Resurrezione, in sostanza, è un romanzo sapienziale, di quelli che in pochi, ormai, osano scrivere. Il libro è ambientato a Srinagar, appunto, e ruota attorno a tre personaggi, occidentali, diversamente infelici. A dispetto del titolo, tolstojano, il romanzo non ha a cuore la morale ma lo spirito; si sviluppa secondo una poetica affine a Goethe. Ciascun personaggio, cioè, raffigura un tipo: Delia, fotografa di guerra, è l’anima attiva; Freddy, il marito – a servizio di un matrimonio privo di ardore -, è l’anima contemplativa; Clara, la sorella di Delia, bellissima, ha un carattere anodino, sconfitto dalla noia, in disastro, «era la tipica persona che lo scrittore Milan Kundera avrebbe definito vandalo. Molto semplice, senza profondità da interpretare, trasparente nel modo di pensare e comportarsi, al punto da far credere a chi la conosceva per la prima volta che recitasse la parte dell’ingenua stupidina». Il viaggio in India – un’India che non ha i contorni della cartolina oleografica, ma i tratti della bella inquietudine – porterà i tre protagonisti a risorgere a se stessi. Tale percorso iniziatico non è esente da tragedie.
Zecchi non cede alle moine della narrativa d’intrattenimento: i dialoghi sono significativi, la finzione narrativa è via d’accesso al processo conoscitivo. Al lettore è chiesto di avventurarsi, di fiorire. In un libro che rimanda a tanti altri libri – quelli di Bruce Chatwin, quelli di Papa Ratzinger, ad esempio – l’immagine che si staglia su tutte è proprio quella dei fiori, «le vere aristocrazie della terra». I fiori, dice Freddy, durante un incontro all’apparenza mondano, «sono imprevedibili nel trovare i loro spazi per crescere oltre all’ordine che viene loro imposto. Hanno una propria vitale anarchia». Eludere l’ordine imposto, distinguere evanescenza da vanità, conferire maestà a ciò che è fragile: il fiore – come il tuono, come il fuoco – illumina, fugace.
Questo è un romanzo che impone il tema della bellezza – quella umilissima, invisibile, invisa -, che dà preminenza all’ascesi spirituale rispetto alle morgane della materia, della scienza – ed è, dunque, felicemente classico, fieramente reazionario