Avvenire, 30 ottobre 2024
Il match Alì-Foreman a Kinshasa /2
Nella notte fra il 29 e il 30 di ottobre del 1974 a Kinshasa, capitale delle Zaire, va in scena uno dei momenti più iconici della storia dello sport moderno. È un combattimento di pugilato voluto lì, nello stadio Tata Raphaël, dal dittatore Mobutu, come una specie di regalo ai suoi sudditi. In Zaire l’inflazione corre veloce solo come la corruzione, Mobutu diventerà uno tra i tre uomini al mondo che hanno incamerato più denaro dello Stato, si dice 15 miliardi di dollari, costruendosi uno smisurato patrimonio personale e vuole, fra le tante stravaganze, che lo Zaire per una sera, sia al centro del mondo. Ben felice di queste condizioni organizza l’incontro Don King, uno che da lì in poi farà una certa carriera: in palio c’è il titolo per il mondiale dei pesi massimi.
Sul ring, dopo un’estate passata in Zaire per allenare i propri corpi al caldo infernale e all’umidità, salgono lo sfidante, Muhammad Ali, 32 anni, e il venticinquenne detentore George Foreman, imbattuto, strafavorito per i bookmakers, gente che di solito si sbaglia difficilmente. Il combattimento inizia alle 4 del mattino, perché centinaia di milioni di americani devono poter vedere quello show in televisione in un orario comodo, serale. I sudditi di Mobutu non hanno dubbi: Ali è il nero giusto, quello da tifare, quello che torna in Africa e combatte per la sua gente. Foreman è nero, sì, ma troppo amico dei bianchi. «Ali bomayé», urla la gente, come in un ritornello ipnotico: “Ali uccidilo”. Ali, invece, ha un piano apparentemente suicida. A partire dal secondo round si appoggia alle corde, senza reagire ai colpi di Foreman. Li schiva quando possibile, o li incassa e basta, portando Foreman allo sfinimento fisico in quel caldo infernale.
“Picchia più forte!”, “È questo tutto ciò che sai fare?” gli ripete sprezzante Ali, dopo ogni cazzotto ricevuto. Centinaia di colpi di Foreman arrivano al corpo di Ali, finché il campione in carica inevitabilmente provato dalla fatica, rallenta la sua azione. All’ottavo round Ali passa al contrattacco. Due colpi terribili e Ali si trasforma in un eroe epico, Foreman va a terra per la prima volta nella sua carriera. I centomila spettatori presenti nello stadio sono in estasi e tutto finisce nelle mani di Zack Clayton, arbitro dell’incontro, un ex campione di basket che aveva militato anche negli Harlem Globetrotters, finito lì a guardare così da vicino quello spettacolo straordinario.
In Brasile si dice che non sia Rio de Janeiro la città più bella del mondo, ma Niteroi che le sta di fronte dall’altra parte della baia, proprio perché da Niteroi si può vedere Rio, “a cidade maravilhosa”. Chi più di tutti, dunque, ha avuto la fortuna di vivere questo momento iconico della storia dello sport mondiale? I due protagonisti? I loro secondi, all’angolo?
Centomila tifosi svegli alle quattro del mattino? I giornalisti? I milioni e milioni di telespettatori in America? Don King? Il dittatore Mobutu? Io ho un’idea ce l’ho: si chiama Zack Clayton, l’ex cestista-arbitro lì, a un metro da Ali, “the greatest”, a un metro dall’epicentro di una delle più irripetibili storie di sport mai viste. Clayton, inizia a contare e il mondo intero va in apnea. Zack Clayton chiuderà il combattimento contando il KO di Foreman fino a nove, invece che a dieci.
Scherzi di un inconscio che forse voleva dimostrare che quella sera, su quel ring al centro del mondo, il vero potere era tutto nelle sue mani.