Avvenire, 30 ottobre 2024
La ribellione degli stranieri di Prato
Il simbolo della ribellione pratese allo sfruttamento è racchiuso in una denuncia, la prima, fatta da un cittadino cinese della città toscana contro i suoi datori di lavoro. È stata presentata in Procura settimana scorsa ed è un genere più unico che raro. Perché la spinta a uscire dal clima di omertà che ancora si respira nel distretto del tessile toscano arriva da altre comunità di stranieri ed è un fatto abbastanza inedito da queste parti. Lo sono di meno, purtroppo, le aggressioni a chi chiede più diritti. Le ultime sono avvenute a Seano e a Pistoia, a pochi chilometri da qui, dove al presidio Cobas sono arrivati a volto coperto manganellando e picchiando chi protestava per le vergognose condizioni di lavoro. «Almeno 50 persone sono state aggredite negli ultimi cinque anni. In alcuni casi hanno bruciato le auto, in altri sono entrati direttamente in casa » racconta nella sede Cisl di Prato Sajid Muhammad Ashfaq, che lavora in una fabbrica chimica di Borgo San Lorenzo e da quasi trent’anni fa il mediatore culturale e collabora con magistrati, ispettori del lavoro e rappresentanze sindacali. «Noi pachistani? Siamo stati i primi e finora gli unici a denunciare».
Cosa è cambiato
Prato è il cuore del distretto produttivo cinese. Lo è da sempre, ma la novità degli ultimi anni è che ormai non c’è più soluzione di continuità tra il centro e la periferia. Così la filiera del pronto moda e delle confezioni abbraccia ormai a intermittenza, dentro grandi zone industriali spesso abbandonate e lasciate a se stesse, un territorio che comprende Pistoia e raggiunge Firenze. Intere distese di capannoni a marchio cinese e italiano, con lavoratori che vagano sulle strade attorno trascinando enormi borsoni, oppure che stazionano all’esterno di piccole ditte, spesso esausti dopo un’intera giornata. Turni massacranti, paghe da fame, niente di nuovo sotto il sole. «Se mi chiedi rispetto a quando ho cominciato, nel 1995, a fare questo lavoro – racconta Sajid – ti dico che la situazione è peggiorata. C’è un metodo di sfruttamento programmato, un vero e proprio sistema, che vede complici gli italiani. È un sistema pensato per lavorare e basta, non per ricordarci che abbiamo dei diritti anche noi. Qui si lavora 24 ore su 24, i miei connazionali fanno 20 chilometri in bicicletta di notte per andare negli stabilimenti. Trattati come schiavi? No, siamo finiti più in basso, almeno a loro davano da mangiare. Noi oggi dobbiamo arrangiarci su tutto. Dopo 12-14 ore di lavoro, non hai tempo per pensare ad altro. Neanche per fare una doccia. Per questo ci siamo ribellati». Pesa, certamente, la comunità di provenienza. Fino almeno all’esplosione del Covid, c’erano quasi esclusivamente lavoratori cinesi sfruttati da padroncini cinesi. Oggi la manodopera si è allargata, a seconda delle ondate migratorie, a persone provenienti da Pakistan, India, Bangladesh, Sri Lanka, Senegal, Marocco. «I datori di lavoro hanno un solo obiettivo – spiega il mediatore culturale -: darti 3-5 euro l’ora, reclutarti per massimo 4 ore e farti lavorare il triplo. Per questo abbiamo bisogno di formarci noi per primi sulle regole. Conoscerle, studiarle. Imparare la lingua». Dopo aver parlato con noi, Sajid traduce ad alcuni suoi connazionali che vogliono raccontare cosa li ha portati sin qui: non lavorano nel tessile, fanno i rider e i magazzinieri. «Lo sfruttamento c’è anche nella logistica, nei supermercati». E le leggi anti-caporalato, l’impegno della Regione Toscana per garantire luoghi sicuri nelle fabbriche del tessile dopo la strage di Teresa Moda in cui nel 2013 persero la vita, a Prato, sette operai cinesi? «Le leggi sono pensate per gli imprenditori, non per i lavoratori» ribatte Sajid. In realtà, negli ultimi mesi il pressing dei sindacati sulle istituzioni è cresciuto. «Ci sono segni di sofferenza e protesta sempre più evidenti – spiegano Fabio Franchi, segretario generale Cisl Firenze Prato, e Marco Bucci, segretario confederale Cisl Firenze Prato – ma le dinamiche di denuncia sono ancora condizionate da ricattabilità, debolezza delle condizioni sociali, difficoltà linguistiche e barriere di controllo all’interno delle singole etnie. Però qualcosa di concreto si può fare subito: perché ad esempio non cominciare ad avviare le prime buone pratiche sul controllo delle ore lavorate nelle aziende del pronto moda?». Sullo sfondo c’è l’aggravante criminale che condiziona il mondo del lavoro e lucra facendo soldi grazie ai fenomeni dell’evasione e dell’elusione fiscale, tanto da aver indotto nei giorni scorsi il procuratore di Prato, Luca Tescaroli, a chiedere la creazione di una sezione della Direzione distrettuale antimafia in città.
Segni di comunità
Anche la Chiesa locale nelle scorse settimane ha alzato la voce contro lo scenario di sfruttamento sempre più pervasivo e le crescenti aggressioni nei confronti dei lavoratori stranieri. «Non possiamo girare la testa e pensare che tutto vada bene nel nostro tessuto economico» hanno sottolineato in una nota gli uffici per la pastorale sociale e del lavoro delle diocesi di Prato e Pistoia. «Al centro del lavoro ci sono le persone, con una propria storia, una propria casa e una propria vita. Occorre superare lo schema del profitto ad ogni costo e andare verso la ricerca di un lavoro degno per tutti». Molto critiche le imprese. Secondo Confindustria Toscana Nord, ciò a cui stiamo assistendo «è il frutto avvelenato di decenni di noncuranza, o di insufficiente attenzione, verso realtà aziendali per lo più irregolari». Per capire a questo punto se e cosa potrebbe cambiare, a partire dalla comunità cinese, è necessario andare alla parrocchia dell’Ascensione al Pino, in via Galcianese. Qui don Pietro Wang, sacerdote e cappellano della comunità cinese, offre uno spaccato inedito non solo dei fedeli di origine asiatica ma anche del rapporto tra le diverse generazioni e dei possibili percorsi di inclusione con i pratesi storici. «Ci sono 200 fedeli cristiani che partecipano alle nostre attività, abbiamo appena avuto 10 nuovi battezzati» spiega. Sono ancora poche le persone arrivate da Pechino in questi decenni che hanno ottenuto la cittadinanza italiana, frenati essenzialmente dal fatto che la madrepatria non riconosce il doppio titolo (italiano e cinese, in questo caso) in termini di nazionalità. «Eppure tanti bambini sono nati qui, fanno il doposcuola con noi, a differenza dei loro genitori stanno imparando l’italiano e magari non conoscono la cultura asiatica da cui provengono». La cautela su quel che accade nei laboratori del tessile gestiti da cinesi è d’obbligo, anche se don Wang dà una chiave di lettura interessante. «La verità è che i più giovani non vogliono più fare gli operai dentro queste imprese. O diventano titolari nelle loro fabbriche o preferiscono magari studiare e andare in altre città, come Firenze, per poi tentare l’avventura imprenditoriale anche all’estero». Restano invece le rivendicazioni della comunità su quanto si potrebbe fare in città sin da subito. «Sono arrivato qui nel novembre 2020, in piena stagione Covid, e ho visto concretamente quanto bisogno di assistenza c’è da parte di tanti anziani e malati – racconta il sacerdote -. Tanti di loro non conoscono la lingua, non hanno amici. Sono soli e a me è toccato accompagnarli quando chiedevano cure e vaccini. Salute e documenti restano la priorità e non sempre le nostre richieste vengono comprese dagli uffici comunali. I pregiudizi non mancano, ma se penso al domani e vedo le nostre scuole, dove studiano insieme ragazzi italiani e cinesi, rimango fiducioso sulle nuove generazioni».