Corriere della Sera, 30 ottobre 2024
Alda Merini, generosa, caustica con i medici
«Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri», l’ha pensata così Alda Merini, in un giorno qualunque, senza voler passare, con questa affermazione, sui libri di storia. Però, questa citazione, spontanea e per lei ordinaria, è invece diventata un aforisma. Le pagine che raccontano della poetessa più amata del Novecento sono piene di righe ispirate senza alcun intento letterario: la Merini sottolineava la vita, sua e degli altri, con qualche istantaneo pensiero, spesso non scritto ma solo dettato, come fosse una breve confessione o una sottile imprecazione. Succede però che la genialità, anche fatta di due sole parole, finisca poi nelle antologie. Era la Merini. È la Merini. E il «Corriere della Sera» la ricorda con il libro Le mie canzoni d’amore, curato da Daniele Piccini e con la postfazione di Antonio Troiano, in edicola da oggi per un mese.
Scriveva, Alda, in quel piccolo locale affacciato sulla Ripa Ticinese di Milano, quando il suo cuore era gonfio di attese e la notte avanzava. Non c’era riparo per lei, sensibile a ogni fruscio della vita, se non quello di inventare un copione capace di illuminare il buio dell’esistenza. In quel minuscolo appartamento Merini fermava le intenzioni quotidiane e scrutava la vita. Milano scorreva ai suoi piedi, lungo quei binari che, oggi, non ci sono più, dove il tram sferragliava e le piante ornavano ancora le sponde. Era, quel luogo, un’alcova di certezze: Alda lì viveva sola ma sempre in compagnia del mondo: appoggiata sui tavolini di un bar, con un bicchiere di caffellatte come pranzo, scriveva foglietti di poesia che vendeva a mille lire l’uno. Qualcuno già la conosceva e l’amava. Altri la consideravano male e la detestavano. Vinceva comunque l’affetto: quei bigliettini scritti a mano sapevano di genialità.
Il Bar Charlie era un ritrovo sicuro. Si sedeva in un angolo, quasi vergognosa di esistere e di essere libera: gli anni del manicomio l’avevano segnata ma non annientata. Un percorso di sopravvivenza: l’internamento e la caduta nel buio non hanno mai tolto alla Merini la forza di risorgere: «Sa, Bonassina – mi diceva nelle telefonate notturne —, in manicomio avevo compagne di sventura che si volevano suicidare. Io sentivo invece, oltre quei cancelli, scorrere la vita e portavo rispetto al Creatore. Ho preso a sberle una donna strappandole di mano le pastiglie con cui voleva farla finita. Salvando lei ho salvato anche me».
Milano e i Navigli, la casa al secondo piano affacciata sulla città, il silenzio della notte e il vocio del giorno: Alda amava il suo quartiere con una dedizione assoluta. Lì tra un negozio e l’altro, tra le bancarelle del mercato, si consumava la sua giornata con gli occhi attenti a ogni anima, debole tra i deboli, ma generosa e prodiga di soldi che non aveva. Lo ricorda anche Giuliano Grittini maestro stampatore, artista e fotografo che le è stato vicino per vent’anni ritraendola in ogni posa: «Alda quando recuperava qualche soldo dalle case editrici si sentiva improvvisamente e indebitamente ricca e regalava banconote a chi ne aveva bisogno. Ricordo quella ragazzina rom, che stazionava sulla sponda del naviglio, con qualche pezzo di foglio, una matita e tanta arte nelle mani. A lei, che Alda adorava, e ai suoi amici in fila, andarono in beneficenza, in pochi istanti, tutti soldi agognati e appena ricevuti dall’editore».
Era prodiga, la Merini, nei confronti di chi, pur in una città ricca di lavoro e di opportunità, stentava la vita. In silenzio, quasi scontrosa per non farsi accorgere, aiutava i giovani: che fosse un giornalista in erba o un aspirante poeta apriva la porta di casa che non aveva serrature. Il chiavistello era il suo sguardo: era quello che ti accoglieva o ti respingeva. Ma brillavano i suoi occhi e dentro c’erano le fiamme dell’inferno o le luci del paradiso. Non si sapeva la linea di demarcazione da dove Alda attingeva idee e pensieri, dove raccoglieva, a sua misura, senza metrica, il bene e il male: lì si innalzava il cuore o sprofondava l’anima. Le poesie della Merini sapevano raccogliere le tempeste e il sole: niente, dentro di lei, aveva pace. Scriveva davanti allo specchio della sua anima, dove ombre e luci si incontravano per diventare poesia. Aveva pretese incondizionate ma suggellate da una sensitività estrema.
Da quel suo osservatorio, nascosto nella Ripa, la Merini sapeva anche guardare e raccontare, spietata, le piaghe della città. Alda spesso «interrogava» gli ospedali, dal San Paolo al Policlinico: succedeva per un improbabile tentato suicidio o per un reale problema cardiaco. Così rispose, teatrale e guascona, a una mia domanda. «I dottori e gli infermieri, sono tutta brava gente?», «Sono i Bravi dei Promessi Sposi. L’Innominato è il primario, perché non si sa chi è, e non bisogna mai chiedere di lui. Poi c’è Don Rodrigo che fa firmare la dimissione quando sei in coma. I Promessi Sposi sono in via Francesco Sforza». E del suo medico curante: «Quando chiamo il medico lui mi dice: senta che tosse ho, non sto proprio bene». Era la sua Milano, nebbiosa, impenetrabile e generosa, proprio come lei. Era la sua città, come lei golosa di vita e impaurita dalle strade vuote. Ma i poeti scrivono di notte: «… quando cadono gli ultimi spaventi e l’anima si getta all’avventura».