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 2024  ottobre 30 Mercoledì calendario

Intervista a Dacia Maraini

Dacia Maraini, lei si sente più fiorentina, siciliana o romana?
«Con una famiglia cosmopolita e un’infanzia trascorsa tra Firenze, Kyoto e Bagheria forse sono un po’ di tutto».
La sua stessa vita sembra un romanzo.
«A partire dai miei nonni. Antonio Maraini, scultore, quello che reinventò la Biennale d’arte di Venezia secondo i dettami fascisti. Sposò la bellissima inglese Yoï Crosse, mia nonna. L’altra nonna era la cantante cilena doña Sonia de Ortuzar, una che aveva studiato con Caruso: peccato che non poté mai esordire, perché era sconveniente per una donna dei primi del Novecento calcare il palcoscenico».

E poi il nonno siciliano, Enrico Alliata di Villafranca, che legò il suo nome ai vini Corvo.
«Rilevò l’azienda, perfezionò un rimedio contro la fillossera, parassita delle vigne. I vini di Casteldaccia conquistarono il mondo. Alliata era un moderno Tolstoj: si prendeva cura dei contadini, faceva studiare i loro figli, era vegetariano. Padre di Topazia, mia madre, che molti anni dopo gli successe alla guida delle cantine. Nel campo di prigionia dove ci rinchiusero in Giappone, dopo l’armistizio. Topazia scriveva le sue memorie».
La scrittura come un alfabeto emotivo appreso da bambina?
«Avevo due anni quando Fosco, mio padre, e Topazia si trasferirono a Kyoto. Lì nacque mia sorella Toni: avrebbe dovuto chiamarsi Akiko, ma le leggi fasciste non consentirono un nome che non fosse l’italianissimo Antonella. L’altra mia sorella Yuki all’anagrafe risulta Luisa».
Fosco ruppe con suo padre proprio perché antifascista.
«Antonio Maraini gli diede la tessera del partito avvisandolo che senza non avrebbe mai lavorato. Per tutta risposta Fosco stracciò la tessera e gettò i brandelli addosso a suo padre. Non si sono parlati per dieci anni».
Nel 1943 i suoi genitori rifiutarono di giurare fedeltà a Salò e voi veniste internati in quanto nemici del governo giapponese, alleato di Mussolini.
«Quando arrivavano lettere per noi, i carcerieri si divertivano a strapparle davanti ai nostri occhi. Mancava il cibo, noi bambine ci intossicammo inghiottendo formiche. Quando papà, secondo il rituale giapponese, si tagliò un dito, ci regalarono una capra: grazie al suo latte potemmo mangiare».
Poi il ritorno in Italia. La Sicilia.
«Era il 1946, le donne a Bagheria erano tutte vestite di nero. Conoscevo il dialetto di Kyoto, l’ho disimparato. Cominciai a scrivere articoli, avevo appena tredici anni. Mia madre era amica di Guttuso, mio padre Fosco, nonostante la fama di antropologo, faceva fatica. Anni difficili, pochi soldi. Si separarono. Fosco si trasferì a Roma, io restai in Sicilia, poi lo raggiunsi nella capitale. Volevo essere indipendente: ho fatto la segretaria, poi la hostess per la Pan Am».


Poi si sposò con Lucio Pozzi, perse un figlio al settimo mese.
«Fui sul punto di morire anch’io».
Perdu: così lo chiama nel libro Corpo felice.
«Lo avevo amato prima di conoscerlo, ci parlavo. Sono convinta che a nessuna donna faccia piacere abortire, e se lo fa è quasi sempre per un senso di responsabilità verso un figlio che non avrebbe un futuro possibile».
Lei scrive il suo romanzo d’esordio, La vacanza, dopo la separazione da Pozzi e nel dolore per il figlio perduto.
«E con i pregiudizi che all’epoca accompagnavano una donna aspirante scrittrice. Finii La vacanza e cominciai a proporlo agli editori. I commenti erano sempre del tipo “bravina, ma perché non se ne sta a casa invece di scrivere?”. Solo l’editore Lerici rispose, ma pose una condizione: che la prefazione fosse firmata da uno scrittore famoso».
E il più famoso di tutti, Alberto Moravia, accettò.
«Stendhal diceva che ci si innamora delle persone che fanno bene il mestiere che ci appassiona. Fu questa la prima impressione che ebbi di Alberto. Serio, attento, generoso. Non ha aiutato soltanto me, ma molti altri giovani. Purtroppo per decenni in tanti hanno sostenuto che i libri me li scriveva lui».
Lei era bellissima, e questo forse con Moravia la aiutò.
«Non andò così, il primo approccio fu al contrario puramente letterario. Insomma, non ci provò».
Lei aveva poco più di vent’anni. Quando vinse il Premio Formentor, il Corriere scrisse che la somma del riconoscimento assegnato «alla bella esordiente a qualcuno sono parsi un riconoscimento eccessivo».
«Ma non erano solo gli uomini ad attaccarmi. Maria Bellonci, madre del Premio Strega, commentò: “Questa ragazza ne deve mangiare di minestre prima di diventare una scrittrice”. Ma io sentivo di vivere dentro una grande famiglia, fatta di scrittori, registi, poeti. Ci vedevamo a Roma da Rosati. Ci trovavi Garboli, Citati, Bassani. Si andava a cena con Fellini, lui mi chiamava Dacina. Tutti pensavamo che fosse solo lui a tradire Masina, ma poi più tardi abbiamo scoperto che anche lei ha avuto vari amori».
In effetti Valentina Cortese ha raccontato che suo marito la tradiva con Giulietta.
«Giulietta e Federico erano alla pari».
Com’era la vita con Moravia?
«Aveva una vitalità inesauribile. Una volta andammo in Africa con Pasolini. Avevamo viaggiato tutto il giorno sulla jeep, arrivammo stanchissimi e impolverati in un villaggio. Alberto non volle sentire ragioni e ci trascinò a ballare».

Con Pasolini siete stati in Africa altre volte.
«Arrivammo in un luogo remoto, eravamo io, Alberto, Pier Paolo, Franco Citti, Ninetto Davoli. Si sparse la voce che in quel villaggio viveva una tribù di cannibali che si nutriva del cervello per appropriarsi dell’intelligenza. Eravamo tutti spaventati. A un certo punto Citti disse a Davoli: “A Nine’, prima se magneranno Moravia, Pasolini, Dacia. Arriveranno a noi che so’ sazi...”. Ridemmo molto».
Moravia e Pasolini.
«Alberto era tutta ragione, Pierpaolo tutta sensualità. Andammo in India. Al ritorno uno scrisse Un’idea dell’India, l’altro L’odore dell’India».
Prima di lei, al fianco di Moravia c’era Elsa Morante.
«Quando mi misi con Alberto lei era innamorata di un giovane pittore americano. Soffriva spesso per amore, ma amava giocare, inventava giochi di società, fatti di parole».
I vostri amici erano Bertolucci, Ginzburg, Penna.
«Sandro Penna viveva di notte. Una volta gli mandai a casa gli operai del telefono e siccome erano le undici del mattino lui li cacciò indignato. Vagava sino all’alba in cerca di compagnia, quando l’ultimo bar lo metteva alla porta cercava le farmacie notturne».
Pasolini.
«Affettuosissimo. Ma senza contatto fisico, perché lui si ritraeva davanti al tocco di una donna. Una volta, in osteria al ghetto, cadde a terra. Ulcera. Perdeva sangue. Lo presi tra le braccia e non dimenticherò mai il suo sguardo: era come se stesse guardando sua madre. Non è vero che non si sia mai innamorato delle donne. Ha amato Maria Callas, ma era un amore senza fuoco, di testa. Lei ne soffrì, avrebbe voluto di più. Però lui nel corpo femminile ritrovava sua madre».
Cercava i ragazzi.
«Ma per sedurli, non per usare violenza. Eravamo in Africa, io lui e Alberto. Pier Paolo uscì, cercava amore. Tornò che era tardi, sconsolato. Ci disse che un giovane lo aveva rifiutato quasi con terrore, facendosi il segno della croce, come per allontanare un demonio. Ne era rimasto colpito, non capiva perché altri vedessero violenza nella sua ricerca dell’altro. Lui, che era profondamente cristiano e mai avrebbe voluto fare del male a qualcuno».
Lei collaborò alla sceneggiatura de Il fiore delle mille e una notte, il penultimo film di Pasolini.
«Sul set avevamo bisogno di un leone. L’animale arrivò con il domatore, ci assicurarono che era innocuo. Ma a un certo punto piantò le zampe sulle spalle di Ninetto Davoli, lo ferì in modo abbastanza serio. Ci prendemmo un grande spavento. Ninetto urlava. E il domatore: “Tranquilli, vuole solo giocare!”».

Dov’era quando le dissero che Pasolini era morto?
«A Rimini, a un incontro femminista. Non volevo crederci, aveva appena 53 anni, era sano, pieno di progetti. Non toccava alcol, beveva solo latte, anche a tavola: suo padre era diventato alcolista dopo essere stato in un campo di concentramento in Africa e usava violenza contro la moglie. L’amore di Pier Paolo per la madre nasce da questo».
Che idea si è fatta di quella notte del 2 novembre 1975, a Ostia?
«Se finora non è emersa una verità chiara, qualcosa dietro deve esserci. Un mistero più grande di noi».
Lei ha viaggiato moltissimo.
«Sud America, Africa, Stati Uniti, Cina. Molti viaggi li ho fatti con gli uomini che ho amato. Alberto, certamente, ma anche Giuseppe, il mio ultimo compagno (di 25 anni più giovane e scomparso prematuramente nel 2007, ndr)».
Che cosa è per lei scrivere?
«Dura disciplina. Scrivere una pagina può essere facile; crearsi uno stile richiede anni di lavoro. Ogni mattina mi alzo presto, mi vesto con cura prima di mettermi a scrivere: la letteratura merita rispetto. Faccio una pausa a mezzogiorno, poi riprendo fino al pomeriggio inoltrato».
Moravia ha influenzato la sua scrittura?
«No, semmai l’ha fatto mio padre. Moravia si rifiutava di rivedere i miei scritti, per me non voleva essere un maestro».
Lo sogna spesso?
«Sogno spesso Pasolini. Ed è sempre giovane e bello».
Le è piaciuto il film di Roberto Faenza tratto dal suo romanzo La lunga vita di Marianna Ucria?
«Molto. La parte del padre doveva andare a Mastroianni, ma alla fine tutto saltò: Marcello aveva avuto un cancro e per questo non ottenne l’assicurazione necessaria a prendere parte alle riprese. Che cosa crudele».
Com’era Mastroianni?
«Pieno di vita. Mangiava tantissimo e quando finiva il suo veniva a piluccarti nel piatto. Gli volevo bene».
Lei è amica di Ornella Vanoni.
«Molto. Ci conosciamo da tanto tempo. Ornella mi fa lunghissime telefonate che a un certo punto interrompe dicendo “ciao ciao, bacini bacini”. Le voglio bene, è una donna intelligente e libera. Una volta la invitai a casa mia a Campagnano. Nel soggiorno ci sono finestre molto grandi ma lei non si faceva problemi a girare per casa nuda».
Lei è amica anche di Carmen Llera, l’ultima compagna di Moravia?
«Sì, anche dopo la fine della storia con Alberto a lui mi ha unito una grande amicizia e una forte gratitudine. E quindi stimo anche Carmen».
Che cosa le piace fare più di tutto?
«Leggere. Leggo dappertutto, sui mezzi pubblici, a casa, per strada, da sola o in mezzo alla folla. Una volta caddi dallo skilift: mi ero perduta in un romanzo anche lì, sulla neve».
Chi è il più grande scrittore mai esistito?
«Come faccio a dirlo? Potrei rispondere Balzac, di cui ho letto tutto, o Flaubert, su Emma Bovary ho scritto un libro. Mi piace scoprire cose nuove, per esempio gli scritti delle mistiche italiane, da Caterina da Siena a Rosa da Viterbo. Mi piace la poesia, ho scritto tanti versi. Mi piace raccontare storie di donne, come ho fatto nel mio ultimo libro Diario degli anni difficili».
Ci sarà mai un ultimo libro nella storia dell’umanità?
«No, fino a quando ci sarà vita. Perché la letteratura è il racconto della vita».