il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2024
Chi sono i monaci?
Chi sono i monaci? Sono quelli che comprendono la realtà e il mondo altrimenti. E siccome comprendono altrimenti, vivono anche altrimenti. Vi sono alcune costanti che definiscono l’alterità della vita monastica cristiana (ben sapendo che, più in generale, la vita monastica è un fenomeno umano universale).
Innanzitutto i monaci sono là: non hanno uno scopo, se non quello di tentare di vivere il vangelo, nella forma del celibato e della vita comune. I monaci non hanno alcuna funzione particolare nella chiesa. Altri sono nella chiesa per fare qualcosa: i vescovi e i presbiteri per governare il popolo di Dio, i frati per predicare, le suore per aiutare i poveri e i malati... I monaci invece non hanno nessuno scopo specifico. Non si fa carriera nella vita monastica: si resta sempre fratelli e sorelle, poveri laici. «Noi non siamo che poveri laici», come diceva Pacomio al patriarca di Alessandria Atanasio.
Quanto a ciò che dà senso a ogni vita umana, ossia l’amore, anche a questo riguardo i monaci vivono altrimenti. Essi decidono di amare l’altro prima di conoscerlo, mentre normalmente nella vita prima si conosce qualcuno e poi lo si ama. I monaci no! Decidono di amare l’altro prima di conoscerlo, e si sforzano di fare questo, in obbedienza al comandamento nuovo (cf. Gv 13,34; 15,12): l’altro è l’ospite, è il viandante, è colui che chiede di entrare in comunità. Vivere il celibato dà ai monaci una libertà e una possibilità ulteriori e diverse di interiorizzazione, di pensiero, di solitudine: tutti strumenti per fare una vita monastica che è ricerca di Dio – «Se davvero cerca Dio» (Regola di Benedetto 58,7) e, insieme, ricerca dell’uomo – «C’è un uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?» (Regola di Benedetto, Prologo 15; Sal 34 [33],13).
All’interno della comunità monastica non c’è possibilità di proprietà o possesso privato. Tutti i beni sono comuni e tra i monaci il denaro non circola. Certo, i monaci sanno che il denaro ha un potere, ma non riconoscono al denaro nessuna autorità nelle loro relazioni. E questo cambia molte cose. Lavorano tutti (e cercano di farlo bene!) per non dipendere da nessuno, lavorano per guadagnarsi da vivere, e tra di loro c’è chi guadagna poco e chi molto: ma questa differenza non significa nulla nelle relazioni, perché i guadagni sono messi in comune. Inoltre tutti, indistintamente, fanno lavori manuali: cucinare, lavare i piatti, pulire le case, fare lavori nel bosco o nell’orto... Insomma, tra i monaci il denaro e il lavoro praticato non contano: ciò che conta è che sono fratelli e sorelle, solidali, coinvolti in una stessa vicenda. Capaci e poco capaci, forti e deboli, sani e malati, bisognosi e meno bisognosi, i monaci sono tutti uguali in dignità e tutti devono sottostare agli stessi doveri e godere degli stessi diritti. È a partire da questa unità, vissuta nelle differenze, che i monaci tendono alla fraternità, cercando di vivere il primato del comandamento nuovo. Così facendo, giorno dopo giorno si esercitano nell’amore e si sentono un corpo, membra gli uni degli altri (cf. Rm 12,5; 1Cor 12,20; Ef 4,25).
Nella vita monastica la consapevolezza di formare un corpo chiede che si pratichi la sottomissione reciproca, il portare «i pesi gli uni degli altri» (cf. Gal 6,2). L’obbedienza alla regola e all’abate è sempre e solo in vista della sottomissione reciproca che permette la comunione e la relazione nella libertà e nell’amore. Sottomissione reciproca significa accettare che le persone deboli dettino il passo alla comunità, che gli intellettuali prendano lezione dai semplici, che gli anziani ascoltino i giovani, che il dissenso affiori come segno che si sta insieme a causa di Cristo e non come un gruppo narcisistico e autoreferenziale.
Intanto, con il passare del tempo si può fare la scoperta che la regola è un cammino di libertà, che esiste una libertà più grande di quella che consiste nel fare ciò che si vuole. Contrariamente a ciò che si pensa, le richieste a volte dure della regola non sono una perdita o un ostacolo ma un aiuto per maturare e approfondire la propria umanità.
Un tratto peculiare dei monaci è che essi amano la notte e vivono la notte prima del giorno. Gli altri uomini e donne vivono di giorno e poi prolungano la vita nella notte. I monaci invece fanno il contrario: alla sera presto (verso le 20) entrano in cella e vanno a riposare, ma al mattino (tra le 2.30 e le 4.30, a seconda dei monasteri) si svegliano anticipando la luce del giorno e vegliano nella lettura delle Scritture, nella meditazione, nella preghiera. Non ci si alza presto per fare penitenza, ma per vivere la notte, quel tempo benedetto in cui si è soli, in cui c’è assoluto silenzio, in cui, soprattutto, si può ascoltare Dio che parla al cuore umano. Di giorno il monaco incontra i fratelli, gli ospiti; di giorno lavora e prega con gli altri fratelli: ma tutto questo avviene dopo alcune ore passate a vegliare nella notte, in attesa del giorno.
Alex Corlazzoli ha sostato per lungo tempo in un monastero e in questo libro offre ai lettori la sua esperienza. Non è un diario dei giorni, una cronaca dei fatti, un quaderno di memorie, e tanto meno un insegnamento sul monachesimo. È la semplice e onesta narrazione di ciò che ha vissuto a contatto giorno e notte con dei monaci. Grazie a un acuto spirito di osservazione e una grande capacità di interpretazione l’autore ci consegna la vita monastica letta da occhi che hanno saputo vedere, osservare, cogliere e da orecchi che hanno saputo ascoltare, discernere, comprendere. Grande è il tatto, la delicatezza, direi il pudore con il quale racconta i momenti più importanti che scandiscono la vita monastica, ma anche quelli più intimi della vita personale e di quella comune: annota, osserva, soppesa senza mai giudicare. Non idealizza, ma ne riporta anche i limiti, le debolezze, le contraddizioni. Di pagina in pagina si coglie nettamente il desiderio di capire, di conoscere, di imparare.
Mi sembra di poter dire che il valore della sua testimonianza è questo: uno sguardo altro su una vita altra. Ciò che caratterizza la testimonianza di Alex Corlazzoli di un tempo prolungato vissuto insieme a dei monaci è senz’altro la sua non comune capacità di raccogliere, comprendere e interpretare gli elementi essenziali che costituiscono l’altrimenti della vita monastica e portarli a convergere in un’istanza centrale, che li riassume e li ri-significa: i monaci vogliono essere una memoria della communitas, un antidoto alle forze centrifughe, disgreganti, individualistiche. Tutto è per loro comune, e la stessa personalità del singolo non deve diventare singolarità contro o senza gli altri.
I monaci si esercitano a vivere in comune, a possedere in comune, a intraprendere tutto in comune, a legiferare insieme: in una parola, a «camminare insieme». Questa è, letteralmente, la sinodalità: un percorso fatto insieme, pur restando diversi. Sì, i monaci sono esperti di sinodalità e vorrebbero trasmettere quest’arte, che ha un prezzo ma potrebbe dare frutti copiosi, nella chiesa e nella società.