la Repubblica, 29 ottobre 2024
Aspesi sul cinema asiatico e un film sudanese
A un certo punto arrivò un film giapponese, I sette samurai di Akira Kurosawa: era il 1954, piacque molto, un film in bianco e nero per chi adorava le manganellate dei sette guerrieri. Nel 1991 si decise che potevamo perdere la testa per un cinese, Zhang Yimou, con il suo magnifico Lanterne rosse, tutti innamorati di Gong Li. Un anno dopo piacque molto Addio mia concubina di Chen Kaige e io andai, figuriamoci, a intervistarlo proprio a Shanghai, oggi una follia, e mi parve normale farlo pur essendo ancora privi dei macchinari malefici che registrano e poi fan tutto loro. C’era, nel film, persino una concubina maschio e non era facile restare indifferenti al suo fascino, tanto era graziosa. Ormai ai festival si era diventati buonissimi e a Cannes si accettava con un lieve mal di testa anche un film che veniva dalla Thailandia, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti: finì per essere una Palma d’oro pazzesca nel 2010, chi l’ha visto al massimo ricorda come un incubo il nome del regista Apichatpong Weerasethakul. Poi si sa, l’ultimo italiano a vincere la Palma è stato Sorrentino con il suo geniale La grande bellezza nel 2014, dopo dieci anni deve essere un ricordo indimenticabile se il regista continua a parlare entusiasta del nuovo film Parthenope come di una interessantissima conclusione.C’è stato quindi un tempo in cui sia la Cina e forse l’Oceania e in mezzo l’Asia cercavano di arrivare ai festival e farsi conoscere nel mondo, anche se adesso pare, con internet, che il mondo si sia ristretto e non si vada più da nessuna parte. E il Sudan? Il Sud Sudan? Altra Africa, altro continente, altro mondo, altro modo di morire, o vivere, a milioni. Malgrado tutto così lontani, oggi più irraggiungibili di ieri. È stato per esempio il film Goodbye Julia a vincere al Certain regard di Cannes il Premio della libertà nel 2023 e finalmente lo vediamo in questi giorni, patrocinato da Amnesty International. Per la prima volta un film del Sudan arrivava a un grande festival, e non poteva essere diverso, con l’eterna guerra sullo sfondo. Le protagoniste sono due donne, Eiman Yousif come Mona, e Siran Riak come Julia, bellissima e regale modella che sfilò anche per Bulgari indossando a Dubai un abito da 15 milioni di euro. Esordiente il regista, Mohamed Kordofani, barba nera, dal Sudan, ex ingegnere aeronautico che vive in una delle isole del Bahrein con la famiglia.Il film inizia a Khartum, capitale del Sudan, nel 2005. Mona, di origine araba, abita una casa dove si vede qualche libro, è musulmana e se esce indossa il burqa, guida la macchina con il volante di pelliccia finta con i lunghi guanti di seta nera. È una donna graziosa, vive col marito e appartiene alla casta fortunata di Khartum, cantava con un’orchestra che amava ma ha smesso per tenersi l’uomo che, se no, non la voleva. Ma è infelice, non ha figli e malgrado le cure pare non riesca ad averne. Julia è una cristiana, ha una croce sulla collana, vive col giovane marito e il loro piccino in una piccola casa in affitto, ma siccome sono del Sud, e vorrebbero star fuori dalla violenza, cacciati di casavanno a vivere in una capanna di stracci assieme a una famiglia amica. A Khartum c’è l’ennesima rivolta, il Sud e il Nord contro le truppe irregolari, i cristiani neri e poveri contro i benestanti musulmani. In quel momento le vite delle due donne si intrecciano per un tragico incidente che coinvolge entrambe le famiglie. Così diverse, le due si avvicinano, cominciano a capirsi: Julia finisce per fare la cameriera a Mona, la religione è lontana, le unisce la grande solitudine, chi il marito ce l’ha e chi non ce l’ha più.Come dice il regista, «l’emarginazione, l’oppressione, l’assenza di giustizia, il fanatismo tribale, religioso e razzista sono tutti problemi di cui soffre ancora il Sudan». Il giorno dopo la proiezione di Goodbye Julia a Cannes, a metà 2023, è riscoppiata la guerra tra le truppe dell’esercito regolare e le Forze paramilitari di supporto rapido, in un continuo golpe in cui si alternano vittorie e sconfitte per l’una o l’altra parte. E chissà se il Salvini, o peggio, il Vannacci, potrebbero dire con sprezzo «ce ne faremo una ragione» senza neppure sapere se il povero disperato ucciso stupidamente da un agente a Verona era cristiano o musulmano, chi se ne importa. La storia del bel film finisce nel 2010, quando il Sud va al voto per la separazione degli Stati, e chi voleva il Sud Sudan vince al 98 per cento. Oggi gli Stati sono due, il Sud e il Nord, circondati da una folla di nemici. Il film dura due ore ed è bella l’amicizia schiva tra le due donne, bello il trovarsi malgrado le differenze e lasciarsi, poi, sapendo che ci si è capite. Mona resterà a Khartum, abbandonando il marito e tornando a cantare senza più il burqa, Julia andrà nel Sud libero con il suo ragazzino. Quale sarà il suo futuro? L’ultima immagine potrebbe essere ancora lui, il figlio: col fucile in mano, accanto a un uomo su una jeep da guerra, pronto a uccidere.