Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 29 Martedì calendario

Lenin dopo Lenin

Adesso Nadezhda sente il rumore dei suoi passi, mentre cammina nelle stanze di Lenin al Cremlino diventate troppo grandi, e il silenzio intorno non è più quello della malattia, ma del vuoto. Dopo trent’anni passati insieme, lei è sola. Rivedrà Ilic soltanto il 18 giugno, cinque mesi dopo i funerali, trasformato nella mummia di se stesso. Identico, ma a che cosa? Lei aveva consegnato al partito sulla Piazza Rossa il corpo rinsecchito di un uomo che da due anni vedeva deperire giorno per giorno, malato, paralizzato, prostrato dagli attacchi ripetuti del male: anche gli occhi, dove si era rifugiata l’ultima sopravvivenza dell’antica fierezza, sembravano infine attoniti per ciò che vedevano, o che non riuscivano più a vedere. Ora la vedova ritrovava una maschera sontuosa e perfetta, ricostruita sul modello delle migliaia di statue che riempivano le piazze dell’Urss, come in un gioco russo degli specchi che tentava di imprigionare per sempre il segno del comando nei gesti di Vladimir Ilic.Era la prima volta che la salma, restaurata nel laboratorio del mausoleo e visionata dal Commissario del popolo Semashko per il nullaosta definitivo, veniva mostrata a qualcuno dopo il processo di imbalsamazione: al partito innanzitutto, nelle persone di Molotov e Voroshilov, che escono impressionati, poi alla famiglia. Dmitrij, il fratello minore di Ilic, stringe la mano a tutti, emozionato: «Sembra vivo, meglio di quando l’ho visto l’ultima volta a Gorkij». Nadezhda non dice nulla, se ne va dalla porta Nikolsky, piangendo per l’impressione.
Monumentalizzato anche nel cadavere, per tutti Lenin è strappato alla sepoltura, quindi restituito al popolo e al partito. Per la moglie, solo per lei, è sottratto, perduto. Due giorni dopo lei capirà che non le appartiene più quando un funzionario del Mausoleo si presenta a casa, chiedendole di consegnare allo Stato i vestiti di Vladimir Ilic. Serviranno come modello per rivestire il corpo negli anni, con quella vita e quella morte che s’inseguono in eterno nella suggestione immobile del mausoleo per significare una cosa sola: corona non moritur.
Adesso Nadezhda sente il rumore dei suoi passi, mentre cammina nelle stanze di Lenin al Cremlino diventate troppo grandi, e il silenzio intorno non è più quello della malattia, ma del vuoto. Dopo trent’anni passati insieme, lei è sola. Rivedrà Ilic soltanto il 18 giugno, cinque mesi dopo i funerali, trasformato nella mummia di se stesso. Identico, ma a che cosa? Lei aveva consegnato al partito sulla Piazza Rossa il corpo rinsecchito di un uomo che da due anni vedeva deperire giorno per giorno, malato, paralizzato, prostrato dagli attacchi ripetuti del male: anche gli occhi, dove si era rifugiata l’ultima sopravvivenza dell’antica fierezza, sembravano infine attoniti per ciò che vedevano, o che non riuscivano più a vedere. Ora la vedova ritrovava una maschera sontuosa e perfetta, ricostruita sul modello delle migliaia di statue che riempivano le piazze dell’Urss, come in un gioco russo degli specchi che tentava di imprigionare per sempre il segno del comando nei gesti di Vladimir Ilic.

Lenin. Il tradimento di StalinEzio Mauro02 Settembre 2024
Era la prima volta che la salma, restaurata nel laboratorio del mausoleo e visionata dal Commissario del popolo Semashko per il nullaosta definitivo, veniva mostrata a qualcuno dopo il processo di imbalsamazione: al partito innanzitutto, nelle persone di Molotov e Voroshilov, che escono impressionati, poi alla famiglia. Dmitrij, il fratello minore di Ilic, stringe la mano a tutti, emozionato: «Sembra vivo, meglio di quando l’ho visto l’ultima volta a Gorkij». Nadezhda non dice nulla, se ne va dalla porta Nikolsky, piangendo per l’impressione.

Il corpo di Lenin imbalsamato 
Monumentalizzato anche nel cadavere, per tutti Lenin è strappato alla sepoltura, quindi restituito al popolo e al partito. Per la moglie, solo per lei, è sottratto, perduto. Due giorni dopo lei capirà che non le appartiene più quando un funzionario del Mausoleo si presenta a casa, chiedendole di consegnare allo Stato i vestiti di Vladimir Ilic. Serviranno come modello per rivestire il corpo negli anni, con quella vita e quella morte che s’inseguono in eterno nella suggestione immobile del mausoleo per significare una cosa sola: corona non moritur.

Lenin, un romanzo russo. Il cervello di VladimirEzio Mauro29 Luglio 2024
Glorificato e catturato per sempre nel mausoleo, Lenin adesso poteva svolgere il suo compito di testimone della perennità della rivoluzione, imbalsamata dalla scienza e dall’ideologia. Ma non era stato semplice. Terminata l’autopsia, era finito anche tutto ciò che l’uomo sapeva sul corpo, dopo la morte. Il Praesidium il 25 gennaio delibera di «preservare la salma di Lenin in una cripta per molto tempo»: ma nessuno sa come. Deve provvedere la commissione guidata da Felix Dzerzinskij, il Capo della polizia segreta. Ma in realtà ci si muove a tentoni.
Dopo aver iniettato nel corpo di Vladimir Ilic quella soluzione di formalina, alcool, cloruro di zinco, glicerina e acqua, il professor Abrikosov aveva visto la pelle del cadavere rifiorire, riprendendo un colore vagamente rosato. Ma poi? Il professore ripeteva ai suoi assistenti che la formaldeide uccide i microrganismi, ed è il miglior fissativo contro la disgregazione. Ma più che una certezza sembrava quasi uno scongiuro. La vera domanda riguardava la mossa successiva: dopo la chimica, cosa poteva garantire al corpo di Lenin l’eternità?
Il dubbio era scientifico ma l’ansia era politica, e infatti la questione arrivò davanti al Comitato Centrale, che si muoveva al buio. Poiché il freddo aveva dato buona prova nei giorni del funerale, si pensò di insistere con la strategia del congelamento. Era una sfida alla morte, ma anche una partita tra il gelo e il tempo. Mentre il ghiaccio circonda Vladimir Ilic in attesa che arrivino i macchinari per produrre il freddo, il Cremlino dà l’ordine di verificare subito gli effetti del congelamento sui corpi di individui appena deceduti: in pratica i test vengono eseguiti non prima, ma insieme all’intervento vero e proprio, confermando l’azzardo dell’operazione.
Come se volesse andarsene da questo destino di ghiaccio, il corpo di Lenin si muove lentamente lanciando segnali di ribellione agli ordini del partito. I medici annotano la comparsa sul viso di due macchie brunite, segnalano sulle mani e sulle gambe ombre scure che rompono l’inganno di quel rosa tenue della pelle. L’equilibrio si sta rompendo, inclina verso la disgregazione naturale, la contesa sembra perduta. Ma se la scienza capisce le ragioni della sconfitta che si profila, la politica non le accetta. Ormai, dopo gli annunci pubblici, quel corpo è un ostaggio ideologico nel quale convergono la fede nel sapere medico, la fiducia nell’onnipotenza scientifica, il culto rivoluzionario del progresso.
Non saranno i batteri che causano l’autolisi, il processo di degenerazione delle cellule, a impedire che Lenin possa sopravvivere a se stesso, almeno nell’immagine esteriore. Ma bisogna cercare nella grande Russia uno studioso pronto a correre il rischio di far finire tutto in polvere pur di provare a preservare Vladimir Ilic.
Quell’uomo c’è, ha 48 anni non ancora compiuti, viene da Odessa, insegna anatomia all’Università di Kharkiv e sta osservando da lontano, dietro gli occhiali pince-nez rotondi, la scena del gran ballo moscovita attorno al cadavere del Capo dell’Urss che sembra scritta da Bulgakov: stanno sbagliando tutto, ancora pochi giorni affidati al ghiaccio e quel corpo non potrà più essere recuperato, devono fermarsi al più presto e correggersi. Il professor Volodimir Petrovic Vorobyov sa cosa bisogna fare ma non vuole dirlo, il rischio è troppo grande, comanda la politica e non la scienza: meglio restare silenzioso lontano da Mosca, nel vecchio obitorio restaurato che per tutti resta la casa dei morti e dunque il luogo dei fantasmi, nascosti tra le mura dove il bisturi del professore separa ogni giorno il prima dal dopo.
Vorobyov non ha paura degli spettri. Nel 1919 ha fatto parte della commissione per i crimini dei bolscevichi a Kharkiv nella guerra civile. Ha dunque visto e certificato l’orrore che riemergeva dagli scavi nei campi di Kharkiv, fin dai 18 cadaveri riaffiorati nel primo giorno d’inchiesta, per arrivare al comunicato numero 19 che denuncia «mille persone uccise in città», al rinvenimento di 97 cadaveri torturati nella prigione del lavoro forzato, al calcolo ufficiale più prudente di 286 vittime: tutte riassunte nell’immagine di Tchaikovskij 16, il campo di concentramento e dei massacri nell’orrore, con sciabole e baionette. Svolto il suo compito, Vorobyov torna scienziato e privato cittadino e torna ai suoi cadaveri.
Ormai c’è un museo accademico con i risultati delle sue scoperte, sviluppando il metodo inventato nel 1895 dal patologo Nikolaj Melnikov-Razvedenkov per conservare a lungo tessuti anatomici cadaverici attraverso l’imbalsamazione. Melnikov aveva illustrato la sua tecnica al congresso medico internazionale di Mosca, riassumendola molto semplicemente in tre passaggi nel trattamento dei tessuti, con la formalina, l’alcool e una combinazione di sali di glicerolo e acido acetico. Il procedimento ricevette il Premio Zagorsky e, dopo la pubblicazione all’estero, fu riconosciuto come «una delle conquiste scientifiche di fine secolo».
Vorobyov era riuscito a migliorare il metodo Melnikov. Glielo confermavano i reperti anatomici allineati dietro i vetri del laboratorio-museo, organi interni, dita, un piede, due orecchie, una mano, frammenti organici: in perfetto stato di conservazione, come se fossero stati prelevati da poco dal corpo. Guardandoli, lo scienziato che era in lui si ribellava all’idea che stava prevalendo nel Comitato Centrale, e cioè che la conservazione a lungo termine di una salma fosse impossibile: ma come! E quei reperti anatomici che urlavano la loro verità scientifica? Erano una spinta potente a farsi vivo, a spiegare, comunque a non rimanere nell’angolo a Kharkiv. Ma in lui c’era anche un professore di mezza età, borghese coi baffi curati, provincialenelle abitudini e raffinato nel costume, la camicia sempre bianca, la cravatta scelta con cura, una passione per le belle donne, un interesse per il teatro, un’attrazione per la mondanità, un gusto per il vino. Segnalare le sue ricerche, comportava il rischio di essere chiamato nella capitale, mettere la scienza al servizio del partito, cambiare vita. Mosca lo intimidiva, il Cremlino lo spaventava. E poi, sopra ogni cosa, sentiva le incognite di quell’avventura, i pericoli che minacciavano la sua carriera, e forse la sua vita. Aveva conservato ormai molti organi anatomici, ma non aveva mai provato a imbalsamare un intero corpo umano: e doveva incominciare proprio con Lenin?Alla commissione arrivò da Kiev la scheda del professore e dei suoi successi scientifici. Un dispaccio immediato di Dzerzinskij lo convocò a Mosca, in un viaggio pieno di cattivi pensieri, con la paura che si combinava con la biochimica interrogandolo, fino alla decisione finale di non farsi catturare da quella prova grandiosa e tuttavia temeraria. Ma appena arrivato sulla Piazza Rossa il professore capì che si era ormai messa in moto una macchina gigantesca, e nessuno l’avrebbe più potuta fermare. Si era sentito a lungo lo schianto di esplosioni per rompere il ghiaccio e scendere nel profondo,una colonna di camion aveva scaricato il legname, cento operai e carpentieri avevano spalato la neve a 30 sottozero e scavato il terreno giorno e notte, ininterrottamente.Contro il muro del Cremlino, dove si era formata una necropoli bolscevica con 240 caduti nella rivoluzione d’Ottobre, Vorobyov vedeva adesso il primo mausoleo di Lenin. L’architetto Aleksej Scusev era stato convocato da Dzerzinskij a mezzanotte, con l’incarico di disegnare il sacrario entro l’alba, perché al mattino doveva iniziare lo scavo per il sarcofago: l’ordine indiscutibile era di realizzare l’opera entro tre giorni. Alle 4 il progetto era completato, un cubo in legno di tre metri per lato, su cui appoggiavano due cubi di proporzioni ridotte. Il sepolcro ora attendeva che dietro la sua porta chiusa si compisse il mistero della trasmutazione dal corpo mortale al“corpus politicus” che non conosce giovinezza e vecchiaia e passa dalla caducità alla perennità, perché il principio regnante non muore.Entrò nel sacrario, accompagnato da un biochimico laureato a Ginevra e San Pietroburgo che conosceva da anni, Boris Ilic Zbarskij, e dal professor Abrikosov, che aveva eseguito l’autopsia e il primo tentativo di bloccare la degenerazione della salma. Ma il risultato era allarmante e il Lenin che si mostrava a Vorobyov non poteva essere esposto al popolo: i cambiamenti cadaverici erano ormai evidenti, i fori nel cranio invece di rinchiudersi allargavano una traccia bruna, gli occhi sembravano infossarsi come se rimpicciolissero, naso e orecchie si raggrinzivano, segni scuri crescevano sulle mani. Il corpo degenerava, il volto affondava in un cambio progressivo di fisionomia.Ancora il 14 marzo il Comitato Centrale confermò la strategia del congelamento. Vorobyov scuoteva la testa, ripeteva a tutti che anche nel freddo gli enzimi lavorano, e intanto pensava solo a sganciarsi da quella follia. Prima di partire firmò la sua denuncia: «Lo stato del corpo peggiora visibilmente, il colore del viso è spaventoso. La disidratazione avanza, l’unico rimedio è un immediato bagno in un rimedio balsamico già testato con successo». Il commissario Krasiv, sostenitore del metodo del freddo, si decise a visitare il museo di Vorobyov, rimase stupito dalle condizioni dei reperti, e passò dalla sua parte. Dzerzinskij diede per scritto al professore l’incarico di salvare il corpo di Lenin, adottando i suoi metodi. Vorobyov tornò a Mosca. Aveva vinto, e aveva perso.Un’altra macchia scura si allargava su un organismo vivente al centro della Russia: il partito. Stalin aveva sfiorato la destituzione con l’apertura del testamento di Lenin, e appena superato il pericolo l’aveva convertito in vittoria. Si era addirittura permesso di presentare le dimissioni, sicuro che a quel punto sarebbero state respinte, come infatti avvenne. Era padrone del partito quando ribaltò sull’opposizione le critiche di Lenin che lo considerava troppo rude, e proponeva di sostituirlo: «È assolutamente vero, sì, io sono rude, compagni, con chi divide il partito. Ho chiesto di esimermi dalla carica di Segretario. All’unanimità, tutte le delegazioni hanno imposto al compagno Stalin di restare al suo posto. Che cosa potevo dunque fare? Fuggire non è nel mio carattere. La verità è che il “testamento” di Lenin è fatale per l’opposizione. Infatti Lenin accusa Trotzkij di “non bolscevismo”, e degli errori di Kamenev e Zinoviev al tempo dell’Ottobre dice che non si tratta di sbagli “casuali”. Che cosa significa questo? Significa che politicamente non si può aver fiducia né in Trotzkij né in Kamenev e Zinoviev, i cui errori possono ripetersi e si ripeteranno. È significativo che nel “testamento” non vi sia invece né una parola, né un accenno agli errori di Stalin. Si parla solo della rudezza di Stalin, che però non è un difetto politico».È un auto-insediamento, favorito da un gioco spregiudicato di alleanze che consente di spostare spalla al fucile secondo le convenienze, scambiando le parti tra gli amici e i nemici. Vinta la battaglia contro Trotzkij con l’aiuto di Kamenev e Zinoviev, Stalin li liquida stringendo un patto con la destra di Bukharin, Rykov e Tomskij, che finiranno poi a loro volta nel mirino mortale. È un cammino tragico verso il consolidamento del potere personale attraverso sospetti che innescano ogni volta vendette sanguinose dentro il vertice del partito, in uno sterminio che fa il vuoto nella nomenklatura. Inutili i contorsionismi tardivi degli alleati del GenSek, che quando scoprono la sua vera natura e cercano di cambiare campo vengono inseguiti, isolati, attaccati e vinti, lasciando che siano poi i processi del “terrore” a porte chiuse a pronunciare la loro condanna e a decretare la morte. Così per tutti.È la sorte di Zinoviev e Kamenev nel ‘36, accusati di terrorismo e fucilati dopo aver ammesso la loro colpa davanti alla falsa promessa di avere salva la vita. È la fine di Bukharin giustiziato nel ‘38 per “deviazionismo”, che lascia alla moglie le ultime parole da imparare a memoria per renderle pubbliche solo nel 1987: «Chino la testa non davanti alla scure proletaria, ma alla macchina infernale che con una forza titanica può ridurre in polvere chiunque». È il destino di Trotzkij, che dovrà aspettare fino al 1940 per compiersi, col sicario dell’NKVD Ramon Mercader che il 20 agosto lo raggiunge nella casa di Città del Messico per ucciderlo calandogli la piccozza sulla testa: «Sento che è la fine – mormorerà l’avversario di Stalin – questa volta… ce l’hanno fatta». Il quadro del terrore era completo. Liquidati i compagni, ucciso l’antagonista, il segretario generale poteva reinventare il passato. Tutto diventava possibile, dopo che Stalin aveva rinchiuso Vladimir Ilic nella gloria da lui amministrata del mausoleo.Bisognava però che il corpo accettasse di fare la sua parte, continuando ad avere un ruolo politico, senza dissolversi ma riempiendo di significato il sacrario. Ormai il prodigio era esclusivamente nelle mani di Vorobyov, con l’obbligo di salvare prima di tutto il corpo, che rischiava di andare perduto nella degenerazione, per poi pensare a conservarlo. Non c’era un’alternativa, si poteva solo sperare nell’effetto del misterioso “balsamo” inventato dal professor Melnikov-Razvedenkov e perfezionato da Vorobyov. Ma prima bisognava asportare il fegato, i polmoni, la milza, i reni, che si aggiungevano così alle viscere e al cervello già prelevati dal cadavere svuotato. Subito dopo si dovevano eliminare tutti i liquidi, per poi ripulire accuratamente la cassa toracica e lavare con acqua distillata tutto il corpo.Chiuso con Lenin nella stanza sotto il padiglione, Vorobyov era dibattuto tra la fiducia nella sua tecnica e lo sgomento per la sfida: per la prima volta si provava l’imbalsamazione di un intero corpo umano, senza rinsecchirlo con l’antica mummificazione egizia, ma cercando di conservare i volumi originali, le forme, l’intera struttura delle cellule e dei tessuti, la fisionomia e addirittura l’espressione. Una nuova frontiera scientifica, da varcare per ordine di un committente che ammetteva soltanto l’obbedienza e accettava un solo risultato. E se l’intervento non fosse riuscito? Vorobyov sapeva perfettamente che la responsabilità del fallimento sarebbe stata soltanto sua, lo avrebbe fatto precipitare da scienziato a stregone, pagando lui solo il prezzo di un’ambizione sproporzionata.Sei uomini in camice (Vorobyov, Zbarskij, il patologo Petr Karuzin e gli assistenti Shabadasc, Zhuravlyov e Zamkovskij) rinchiusi nel sotterranei di Mosca, aprirono il petto di Ilic senza sapere davvero se era un’operazione chirurgica o un esorcismo. Fecero saltare subito i punti di sutura sul cranio e sul petto, svuotarono le parti cave. Da quel momento in poi si poteva soltanto ballare. Nell’emergenza, ormai l’ omogeneità dei colori stava saltando e proprio quello diventava il campo di battaglia: contro il grigio che si allargava sulle guance, contro il ruggine di una mano, o il nero che avvizziva nell’orecchio, o il violaceo delle gambe illividite. Bisognerà restituire un tono alla pelle, lavorarla, per ritornare ai colori abituali della pigmentazione del viso. Ma come fare?Vorobyov pensa a un pittore, che sappia cogliere le sfumature e consenta agli anatomo-patologi di poter seguire una vera e propria mappa dei colori del corpo di Vladimir Ilic in nove parti. Zbarskij ha un amico architetto che fa il pittore, lo chiama. È Alexander Pasternak, fratello dello scrittore Boris che vincerà quasi quarant’anni dopo il Nobel per la letteratura maledetto dal regime. C’è un forte legame di famiglia con Boris, che va a vivere nell’azienda- fattoria degli Urali dove è direttore Zbarskij, forse ha una storia con la moglie: e quando rientreranno a Mosca abiteranno per qualche anno tutti nel palazzo di Casa Pasternak. Così il mondo futuro di Zivago si affaccia al cammino di Lenin, nell’ultima tappa.Il corpo scende dentro un bagno di formaldeide, in una vasca speciale di caucciù, costruita apposta per Vorobyov. Inizia la procedura del rimedio balsamico, ci siamo. Subito Ilic sembra resistere a quell’immersione nel formolo: non si riesce a impregnare il corpo. Eppure il nuovo balsamo è l’unica salvezza, bisogna portarlo dentro i tessuti, nell’organismo, ad ogni costo. E il professore decide di aprire il cadavere con piccole incisioni su tutta la superficie corporea compreso il palmo delle mani, quindi rivede in corsa la formula del fluido portando la glicerina al 20 per cento, l’alcool al 30 per un bagno definitivo di dodici giorni, cui si aggiungono dosi crescenti di acetato di potassio. Poi c’è l’immersione in una vasca di alcool al 20 per cento, la testa e i piedi al 30. Dopo due settimane la salma trasloca in una soluzione acquosa di glicerina e qui finalmente poco per volta il corpo si lascia manipolare dalla cura, ubbidisce ai comandi, prende la consistenza e il colore che il rimedio di Vorobyov aveva immaginato per anni, mentre le macchie impallidiscono: è la svolta, sotto gli occhi del professore.Fu come se alzasse lo sguardo dalla salma dopo giorni di follia. Improvvisamente si accorse che nel mausoleo il freddo era insopportabile (meno 1), che erano rinchiusi in una specie di caverna cittadina di legno, che rischiavano di non finire la manutenzione di Vladimir Ilic neiquattro mesi richiesti: ma che sorprendentemente lui poteva fare il miracolo, perché il fluido segreto funzionava.Dzerzinskij decide di dare un minimo di comfort a Vorobyov e ai suoi uomini che non lasciano la cripta giorno e notte, dormono al freddo, mangiano cibo secco. Nell’inverno ‘24 un ordine fa posare le rotaie del tram sulla Piazza Rossa dove arrivano le carrozze speciali con le stufe per i medici che possono così dormire, mangiare e riposarsi all’interno. È la linea tranviaria di Lenin. Il 17 giugno si apre a Mosca il V congresso del Komintern e la sera dopo ai delegati viene mostrato per la prima volta il corpo di Lenin restaurato in una bara di vetro chiusa. Con la luce sottile calibrata sulle mani e sul viso, è un’apparizione di potenza per il partito.L’impressione è talmente forteche Dzerzhinskij abbraccia Vorobyov e lo invita nella Sala grande del Cremlino a parlare ai congressisti dell’Internazionale Comunista. Quasi balbettando, Vorobyov sale alla tribuna: «Le misure adottate per l’imbalsamazione poggiano su solide basi scientifiche che ci permettono di contare sulla conservazione continua, per un certo numero di decenni, del corpo di Vladimir Ilic». Nessuno conosceva la portata dell’intervento artificiale, tra organi esportati, cavità svuotate, impianti inseriti: estratti i bulbi oculari che stavano cedendo, furono impiantate al loro posto due biglie di ferro, poi si cucirono le palpebre, e si chiusero le labbra coi punti nascosti sotto i baffi, mentre si sigillavano gli orifizi. La disputa sul falso e il vero Lenin, l’accusa di montare la guardia d’onore a una sorta di statua di cera, durerà per sempre. Anni dopo, davanti alle voci dissacranti, il professor Boris Zbarskij invitò nella cripta un gruppo di testimoni stranieri tra cui il giornalista americano Louis Fischer, che lo vide aprire la bara di vetro, prendere la salma di Lenin per il naso e scuotere la testa a destra e sinistra, assicurando: «Durerà un secolo». Vorobyov fu ricompensato con 50 mila rubli e un appartamento. Ma il professore camminava già nella leggenda, col racconto popolare che favoleggiava di 100 pezzi d’oro per lui, come nelle fiabe.La monumentalizzazione del ricordo continua a crescere: un secondo mausoleo, sempre in legno, prende il posto di quello provvisorio, arricchito da tribune sui lati, poi nel ‘29 si arriverà all’ultimo, di granito. Come una celebrità, Vorobyov torna a Mosca due volte al mese, quando il fluido viene spalmato sul viso e sulle mani di Ilic, mentre ogni 18 mesi il corpo è immerso nel bagno balsamico. Ma nonostante i controlli, un mignolo viene divorato da un fungo, e si deve tagliare il dito e stringere la mano a pugno per nascondere la menomazione. La notte tra il 2 e il 3 luglio 1941 Stalin firma l’ordine di partenza del corpo di Lenin da Mosca, minacciata dal bombardamento dei nazisti ormai molto vicini alla capitale. Un viaggio segreto di tre giorni e 1500 chilometri su un treno fantasma, fino alla piccola città siberiana di Tyumen, vicino al villaggio di Pokrovskoe dove aveva vissuto Rasputin, il Santo diavolo da cui era iniziato il precipizio dell’impero: fino al marzo ‘45, quando Lenin tornò nel mausoleo, portato in salvo attraverso la guerra come i Lari e i Penati della Madre Russia.A questo punto il potere sembrava temere solo se stesso. E infatti faceva il vuoto intorno a sé, travolgendo amici e compagni. La crudeltà era nel metodo, la ferocia nel numero, l’empietà nel compiacimento con cui Stalin leggeva le lettere di sottomissione dei dirigenti incarcerati, come Kamenev («In un momento in cui l’anima mia è piena di amore per il Partito, posso dire con coraggio che ho imparato a fidarmi totalmente di ogni decisione che tu, compagno Stalin, deciderai di prendere»), o si faceva raccontare dai giustizieri le ultime ore dei condannati a morte, come Zinoviev – foto segnaletica NKVD numero 59744 – in ginocchio nell’ultima supplica al Terrore, prima di essere trascinato fuori dalla cella: «Ti prego compagno, per l’amor di Dio, chiama Josif VissarionovicNadezhda Krupskaja, ricoverata d’urgenza nel giorno del suo compleanno, dopo aver ricevuto in dono una torta da Stalin: che poi vorrà portare con le sue mani le ceneri della compagna di Lenin nelle mura del Cremlino. E intanto può andarsene anche Voladymir Vorobyov, il professore che quando gli diagnosticano un tumore al rene scappa dall’ospedale del Cremlino, perché ha capito tutto e non si fida di niente, e va a morire nell’ottobre 1937 a Kharkiv, col segreto del suo balsamo che congela la morte altrui, non la sua.Dei sei candidati alla successione di Lenin secondo il suo Testamento, cinque sono scomparsi pochi anni dopo, sterminati dal sesto. Ma tutto era già scritto in questo paesaggio di sangue il giorno in cui la bara scoperta di Ilic entra nel mausoleo. La portano a spalle in sei, Stalin, Molotov, Kalinin, Bukharin, Kamenev e Tomskij: pochi anni dopo Bukharin e Kamenev saranno giustiziati, Tomskij si sparerà un colpo di pistola, Molotov e Kalinin sopravviveranno ma con le mogli in ostaggio del Cremlino, processate, condannate, arrestate. Solo Stalin è indenne. Gli altri cinque, come dice un proverbio russo, quel giorno sulla Piazza Rossa portavano sulle spalle la loro sventura, sotto gli occhi di ferro di Vladimir Ilic detto Lenin.