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 2024  ottobre 29 Martedì calendario

Vi racconto di come ho perso la memoria

«Quando il medico del pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito di Roma mi ha chiesto chi dovesse avvertire della mia famiglia, gli ho detto di chiamare mia madre. Mi aveva investito un’auto che poi era fuggita. Mi aveva agganciato e sbattuto contro una macchina parcheggiata. Ero rimasto a terra, con la faccia sull’asfalto. Ricordo che avevo molto freddo, tremavo e che un carabiniere mi coprì con il suo cappotto. Al dottore diedi il numero di mamma, 3381270. Lui mi corresse: “063381270”. Mica chiama da fuori Roma, obiettai. Lui mi guardò, sorpreso.
Gli avevo detto come mi chiamavo, Luciano D’Adamo, e che abitavo a Monte Mario. Gli avevo dato il mio anno di nascita, il 1956. Tutto perfetto. Avevo ventitré anni e volevo uscire presto, non avevo contusioni gravi ma solo un po’ di confusione in testa.
Sarà la botta, pensavo.
Il medico mi chiese se ero sposato. Gli risposi che lo avrei fatto quattro mesi dopo, il 20 luglio. La mia fidanzata ha diciannove anni, aggiunsi. Lui alzò lo sguardo, sorpreso, dalla cartella clinica e sorrise, “Hai capito? Caspita, complimenti”. Non comprendevo cosa diavolo ci fosse da ridere.
Poi mi disse che c’era una persona che voleva vedermi. Pensavo fosse mamma. Invece entra una signora che mi dice “Ciao Luciano, come stai?”
E mo’ questa chi è? Guardo il medico, interdetto. Lui guarda lei, lei guarda lui. Ci guardiamo, ma è tutto strano. Lui le fa cenno di uscire e mi dice che si erano sbagliati di stanza. Obietto che mi aveva chiamato Luciano. Ma lui pronto ribatte che c’era un altro ricoverato, coincidenza, per incidente e che si chiamava proprio come me. Strano, ho pensato.
Dopo un po’ entra un ragazzo che, tutto agitato, mi dice “Ciao papà, come va?”.
Ecco il matto, ho pensato. Avrà avuto trent’anni, come faceva a essere mio figlio, visto che ne ho ventitré? Tira fuori dalla tasca un coso su cui aveva delle foto che mi mostra. Non ne riconosco nessuna, non capisco chi sia e di cosa mi stia parlando. Mi chiedo solo dove sia il rullino di quella macchina fotografica così miniaturizzata. Forse anche lui ha sbagliato stanza, malato, Luciano. Boh.
Ma il giorno dopo mi fanno muovere e vado in bagno. Passo davanti allo specchio e guardo la persona che compare. È un anziano signore, non io. È un’altra persona. Lancio un urlo, arrivano le infermiere e cercano di calmarmi. Ero terrorizzato, sembrava un film dell’orrore.
Mi hanno spiegato che eravamo nel 2019. Ma come era possibile? Per me era il 20 marzo del 1980. Ricordavo benissimo. Avevo concluso il mio turno a Fiumicino dove lavoravo, ero tornato a casa, poi ero uscito e un’auto mi aveva travolto a Monte Mario.
No, dicevano loro, non era andata così.
Il 6 febbraio del 2019 ero uscito dalla scuola dove facevo il cuoco e stavo portando al cassonetto la spazzatura. È lì che ero stato travolto e avevo sbattuto la testa.
Ma io non ricordavo nulla di quei trentanove anni. Non i fatti, non le cose che avevo vissuto, non le persone. Era come se non li avessi vissuti. Io avevo ancora ventitré anni, non certo più di sessanta. Io quel tipo nello specchio non lo conoscevo, non ero io. I medici non riuscivano a spiegare quello che mi capitava, dissero alla signora e al ragazzo che sarebbe passato, che ci voleva solo tanta pazienza.
Da allora sono trascorsi altri cinque anni, di pazienza ne abbiamo avuta tanta, ma non è successo nulla. La mia memoria è ferma a quel giorno di marzo del 1980 e da lì non si schioda. Certe volte mi rendo conto, ancora oggi, di fare cose da ragazzino. Mi capita di salire, come facevo allora, i gradini a tre a tre e poi di fermarmi. Non solo perché ho il fiatone, ma perché mi dico, da solo, che non posso e non devo farlo.
Quella signora gentile mi aveva spiegato che l’incidente era accaduto quasi quarant’anni dopo quello che io pensavo. Mentre mi parlava io l’ho cominciata a fissare negli occhi e le ho solo detto: “Tina...”. Era lei, la ragazza di diciannove anni dalla quale stavo andando la mattina dell’incidente, almeno del “mio” incidente. Mi ha fatto vedere le foto del nostro matrimonio e piano piano abbiamo insieme ricostruito la mia vita, la nostra vita. Che per me è un pozzo di buio.
Io continuo a non avere ricordi. Ma nell’anno di lavoro “ricostruttivo” che ho fatto all’istituto Santa Lucia con le dottoresse Incoccia e Lucarelli, ho cercato di cucire la mia vita slabbrata. Mia moglie ha preparato delle cartelle, anno per anno, con le fotografie, i video, degli scritti per aiutarmi a datare i momenti fondamentali. Io scrivo tutto quel poco che mi torna alla mente. E mi torna sempre nella forma di flash. Tanto nitidi quanto rari. Ne avrò annotati una cinquantina, non di più. Ma arrivano così, e io fatico a collocarli nella time line della mia vita.
Il primo fu un suono. Il suono di una canzoncina che io “vedevo” mentre la cantavo. La eseguivo insieme a una signora della quale riconoscevo distintamente i vestiti, i colori della gonna e della camicetta. L’ho accennata a mia moglie e lei dopo un po’ si è ricordata che eravamo in un villaggio turistico, a Mascali, in Sicilia. Mi ha mostrato le foto di quella vacanza. La nostra amica aveva proprio quel vestito.
Poi io, che sono tifoso della Roma, mi sono ricordato vagamente di un rigore in una finale di Coppa dei giallorossi. L’ho descritto a Simone, che era davvero mio figlio, e lui invece ha riconosciuto il “cucchiaio” di Totti in Italia Olanda. Me lo ha mostrato ed era proprio quello. Ma io non sapevo chi fosse Totti, né come fossero andati quegli europei. Come non sapevo che la mia Roma avesse vinto due scudetti, per i quali devo avere molto gioito, né che l’Italia si fosse aggiudicata due campionati del mondo. Li ho rivisti, quelli del 1982, esultando come fossero in diretta. Quei giocatori li conoscevo tutti, salvo Bergomi. Ma non sapevo chi fossero Maradona, Messi, Ronaldo, Del Piero...
Ma i flash più intensi li ho conosciuti con due nitidi ricordi del parto dei miei due figli, Simone e Marco. Ogni particolare mi è tornato alla mente, li ho rivisti vivendoli, non semplicemente ricordandoli.
La mia memoria è come un juke box, uno di quelli delle estati degli anni Settanta. Metti le cento lire, i dischi girano, girano, finché si fermano e uno solo scende sul piatto per essere ascoltato.
Quando, uscito dall’ospedale, sono salito in auto mi mancavano le parole. Era alta, grande e piena di cose tecnologiche. Mi hanno spiegato che non vivevo più a Monte Mario, come ricordavo io, ma a Ladispoli. Posto che conoscevo perché lì avevo fatto il bagnino, per arrotondare. Mio padre era cieco di guerra, mia madre si doveva occupare di undici figli. Così facevo due lavori, dopo la terza media.
Il mio sguardo in auto era concentrato sullo schermo che stava sul cruscotto. Ero silenzioso, vedevo la freccetta che si muoveva man mano che cambiavamo strada. A Simone a un certo punto ho detto “Ma ’sta freccia ce sta a segui’?”. Mi ha detto che era il navigatore. “Er che?”.
Mi ha spiegato che era tipo un Tuttocittà, ma vivo. Vedevo tante macchine, ma non le riconoscevo. Pensa che mi ricordo benissimo il colore dell’auto che mi ha investito e ho sempre avuto negli occhi lo stemma. Ma non lo riconoscevo perché non era della Fiat o della Mercedes, le auto dei miei tempi. Allora l’ho disegnato. E Simone mi ha detto che era una Mazda.
Quando siamo arrivati nella casa dove avevo vissuto con la mia famiglia, evidentemente per tanti anni, mi sembrava la casa di un altro. Non riconoscevo nulla. A un certo punto ho visto che c’era uno scatolone nero che non capivo cosa fosse. Poi mia moglie ha spinto un tasto e ho capito che era uno schermo televisivo. Nel mondo che ho lasciato io c’era il televisore a cassettone. Io la tv a colori l’andavo a vedere da un amico, pensa un po’.
Non so nulla di Tangentopoli, di Falcone e Borsellino, di Ustica, di Berlusconi, dei Papi eletti, dimessi, morti, dei presidenti della Repubblica, di Gorbacev, di John Lennon, della caduta del Muro. È come se non li avessi vissuti, come se non ci fossi stato. Ho un flash sulla strage di Bologna. Mi sono rivisto durante una camminata sul Vesuvio e ricordavo solo un orologio con le lancette ferme. Le dottoresse me lo hanno fatto vedere, così ho saputo. E ho pianto per quelle vite spezzate. Le Torri Gemelle, quando c’ero io, le avevano appena costruite... Che orrore.
Ma sto ricostruendo ogni cosa. Sono molto curioso. Vado su Google e vedo, capisco. Pensa se, come era un tempo, ci fossero state solo le enciclopedie. Io sarei ancora più vuoto.
Il portiere della scuola dove lavoro oggi mi ha insegnato a usare la rete e il cellulare e mi piacciono.
Non sono felice. Non posso esserlo. Ho scoperto che mia madre è morta e non ho neanche il ricordo di quando sono andato ai suoi funerali. Uno dei miei fratelli, siamo rimasti in quattro, non l’ho nemmeno riconosciuto.
Combatto, ho un buon carattere. Ma ho vissuto solo un terzo della mia vita. Trentanove anni sono nel buio.
Ho imparato che solo la memoria è la vita vissuta.
Il resto vola nel vento».