RivistaStudio, 28 ottobre 2024
Intervista a Silvio Orlando, attore
Dice Silvio Orlando che quello dell’attore è un mestiere che si può imparare, ma che non si può insegnare. Perché è importante essere unici. E questa unicità, spiega, è figlia di tante cose: delle scelte che si prendono, per esempio, e del viaggio che si decide di fare. Parla di nomadismo e di sedentarietà: se il primo è una condizione quasi necessaria per un attore che è in tournée perenne, che gira per i teatri, per le città, che incontra il suo pubblico, la seconda suona più come una possibilità.
Chi recita, insiste Orlando, deve vedere. Proprio come ripete il professor Marotta, il personaggio che interpreta in Parthenope di Paolo Sorrentino: il compito dell’antropologia è vedere. E vedere assume e può assumere infiniti significati e ruoli: chi vede, e vede davvero, ha la responsabilità di non fermarsi alla superficie e andare oltre, a fondo, per raccontare agli altri, a chi lo circonda, che cosa ha scoperto. Paradossalmente, però, vedere è più facile di lasciarsi scivolare le cose addosso: per quello, dice Orlando, ci vuole tempo, perché è l’ultima lezione che si impara. Per questa intervista, in cui abbiamo parlato di tutto, dal teatro al cinema, dagli anni dell’università a quelli del liceo, siamo partiti dalla fine e quindi, inevitabilmente, dal presente.
A un certo punto dei Ciarlatani, lo spettacolo che stai portando in giro per l’Italia, interpreti un bambino che critica la protagonista e la sua interpretazione della Strega nel Mago di Oz. È ferocissimo, non ha nessuna pietà, ma resta comunque un bambino. Quindi ti chiedo: chi è il critico migliore?
Forse ancora deve nascere (ride, nda). Ma sai, quando eravamo bambini c’erano quelli che giocavano con i giocattoli e c’erano quelli che i giocattoli li rompevano per vedere come erano fatti dentro. Quelli che ci giocavano magari hanno deciso di fare gli attori e i registi. Quelli che invece li rompevano per vedere come erano fatti dentro hanno deciso, il più delle volte, di fare i critici. E quindi c’è questa tendenza a oggettivizzare e a dover smontare le cose, che però non ti avvicina minimamente a quello che stai vedendo.
È un problema, secondo te?
È una malattia professionale per chi fa il critico. Lo spettacolo chiede allo spettatore di abbandonarsi, di lasciarsi andare e di provare a creare un contatto reale. È il mestiere del critico che ha, diciamo così, dei limiti: deve dissezionare, raffreddare le emozioni, e vedere tutto da una prospettiva più grande. A volte, c’è come il tentativo di avvertire le persone.
In che senso?
«State attenti, vi stanno imbrogliando». In questi casi, quando fa così, la critica si trasforma in qualcos’altro: una caccia infinita all’impostore. E alcuni artisti sono terrorizzati da questa cosa.
C’è anche un’altra tendenza: oramai, con i social, tutti sono critici.
Sai cosa? Quando c’è una recensione positiva, sembra che non la legga nessuno. Quando c’è una recensione negativa, invece, la leggono tutti. C’è una specie di attrazione verso la cattiveria, verso la spigolosità, verso l’essere sempre e comunque distruttivi. Ci siamo convinti che facendo così diamo l’impressione di essere più intelligenti di quelli che ci stanno intorno. E francamente non so dirti dove ci porterà questo modo di comportarsi. Se nell’ambito intellettuale è un fenomeno tutto sommato ridotto, perché gli intellettuali sono pochi, nella vita di ogni giorno rischiamo davvero una deriva, dove i giudizi finiscono per fare più male dei colpi delle mazze da baseball.
Che cos’è che fa male?
Quando il sottinteso non è «hai sbagliato qualcosa» ma «sei sbagliato tu». Un errore non è più solo un errore, è la fine. E intendiamoci: di una cosa si può e a volte si deve parlare in modo feroce. Però ci devono essere le premesse giuste, ci deve essere il desiderio genuino di offrire il proprio punto di vista e non solo di demolire l’altro.
E come si fa, così, a convivere con le critiche?
Devi fare una media: tenere insieme tutto, e provare a guardare oltre.
Suoni ancora il flauto?
Sta lì. Ogni tanto, quando mi va, lo tiro fuori… Ma non l’ho mai suonato, in realtà. Non veramente. Non mi ha mai dato da vivere. È un hobby. E come tutti gli hobby, in questo momento non riesco a coltivarlo come si deve perché con la vita che faccio di nomadismo totale non ne ho la possibilità. Così come non ho la possibilità di prendere un cane o di andare in palestra (nel caso remotissimo in cui mi venisse voglia). Non posso avere niente, io.
Niente?
Niente. Nemmeno un amico. (ride, nda) Con il tipo di vita che si fa in teatro, certe cose che per gli altri sembrano normali per noi sono difficili da coltivare. Quindi diventa anche straziante, no? Per un periodo ti dedichi a questa cosa anima e corpo, ci spendi tutto il tempo che hai, e poi sei costretto a passare oltre e ad abbandonarla. È più una roba mentale, il nomadismo, che fisica.
E ti pesa?
È la cosa che mi pesa di più in questi ultimi anni, sì.
Stai pensando di diventare sedentario?
Sai, bisogna vedere i pro e i contro. Una voce nella mia testa mi dice: ma perché rinunci ogni sera al tuo letto, perché rinunci alla visione dei pacchi…
I pacchi?
Sì, il programma che fa De Martino su Rai Uno. Un’altra voce, nello stesso istante, mi dice che forse, se passassi tutte le sere a guardare De Martino, finirei per sentirmi peggio, perché per avere i pacchi perderei tutto il resto.
Al di là di queste voci, tu che cosa pensi?
Che con l’età che avanza diventa sempre più impegnativo, e da questa cosa non si scappa. Perché a un certo punto arrivano anche gli acciacchi e con gli acciacchi è veramente difficile rinunciare al tuo letto… e a De Martino.
Quando guardi il flauto nella sua custodia, qual è la prima cosa, il primo ricordo, che ti viene in mente?
La voglia che avevo di comprarlo e la fatica che ho fatto per riuscirci, perché all’epoca non avevo una lira. Oggi che ho i soldi e che potrei suonarlo, non ho il tempo per farlo. Il flauto, però, è stato la chiave di tante cose.
Per esempio?
Mi ha avvicinato al teatro. Io facevo il musico negli spettacoli. E la prima tournée l’ho fatta proprio così, come musicista. Portandomi a Roma e a Milano, il flauto mi ha permesso di iniziare a conoscere il resto del mondo. E solo grazie al flauto ho cominciato a capire che cosa mi interessava davvero. Ho potuto scoprire i teatri off che c’erano in giro per l’Italia e a Napoli.
Mi pare che tutti, per l’uscita di Parthenope, ti abbiano fatto domande su Napoli.
Sì, abbastanza…
Io vorrei chiederti di Pesco Sannita, il paese di tuo padre. Ci sei mai stato?
Sì, ci sono stato una volta. Il sindaco mi ha dato la cittadinanza onoraria.
Una bella cosa, insomma.
Dopo un anno l’hanno inquisito. Non ti so dire perché… Però so che c’è un pezzo della mia famiglia che almeno una volta l’anno si riunisce e si incontra lì, e si aggiorna. Ed è una cosa molto bella di cui sono un po’ invidioso.
Perché non ci vai anche tu?
Sono contatti che ho completamente perso, e poi ti dico la verità: non saprei che cosa dire. È un pezzo della mia famiglia che mi piace molto. Non so se te l’ho mai detto, ma tra i miei antenati c’è anche un martire.
No, non me l’hai detto.
Luigi Orlando, mio trisavolo, venne fucilato dai piemontesi. Era un filo-borbonico. Gli avevano detto che i piemontesi si stavano ritirando, e invece andarono a prenderlo.
All’università hai frequentato la facoltà di sociologia.
Sì, ma è stata una sbandata giovanile. (ride, nda) Ho sfogliato un po’ di vecchi libri quando mi sono preparato per interpretare il professor Marotta di Parthenope.
E come sono andati i corsi finché li hai frequentati?
Molto bene. Le scienze umanistiche, negli anni Settanta, erano di moda. Erano uno strumento per proseguire con la lotta politica. E sociologia era un po’ la chiave di volta di tutto, ti dava modo di capire i meccanismi del mondo. Io sono andato oltre la metà degli esami. Poi però ho capito che sarebbe stato difficile andare avanti dopo. Ogni esame era…
Un’avventura?
No, più un episodio a sé stante. Era veramente complicato tenere tutto insieme. Il punto di rottura, anche nel caso dell’università, è stato il terremoto: quando c’è stato nell’80 si è fermata ogni cosa. Io ho abbandonato sia il flauto che la sociologia, e mi sono dedicato al teatro. Però sono stati anni importanti, di formazione. Ho fatto le mie letture e avuto i miei incontri. Sociologia, ricordo, era frequentata da vere e proprie bande armate, che circondavano i professori, le loro scrivanie, e chiedevano il 18 politico.
In una delle primissime scene di Parthenope in cui lo vediamo, Marotta, cioè il tuo personaggio, risponde a uno studente che chiede di andare in bagno con: «Agli esami si viene già pisciati e cacati». In Italia l’università è stata un luogo di rivoluzione?
In Italia non siamo mai riuscite a farle, le rivoluzioni. Quanto durò la Repubblica Partenopea? Pochissimo. Noi abbiamo avuto dei tentativi di rivoluzioni e delle controrivoluzioni devastanti. Ma l’atteggiamento che ha Marotta ha un altro obiettivo.
Quale?
Ricordare agli studenti che si trovano in un’istituzione e che ci sono delle regole da rispettare. In quegli anni lì, nell’università c’era molto questa idea di autogestione e di autoregolamentazione. Marotta è così scostante perché vuole rimettere al centro ciò che per lui è importante, ed è un atteggiamento che, con l’età, mi sento quasi di condividere. Se non c’è un minimo di distanza tra professore e studente, è difficile che le cose possano funzionare.
Tu hai mai incontrato maestri come Marotta, capaci di guidarti e di farti capire che cosa volevi essere?
Ho fatto delle buone elementari, dove c’era questa maestra che seguiva tutte le materie e che per concentrarsi su di noi non aveva voluto né sposarsi né avere figli. La scuola era la sua unica missione. Era severissima, credimi. Però quello che mi ha insegnato è rimasto. Il mio corso liceale, invece, è stato catastrofico. All’epoca c’era un vero e proprio boom, e non c’era nemmeno il tempo per dare un nome alle scuole: Manzoni, Leopardi, eccetera eccetera. Io ho frequentato il VI Liceo Scientifico e ho avuto la fortuna di avere come insegnante di lettere Padre Dini.
Perché “fortuna”?
È stato con noi solo due anni, però ha saputo guardarci negli occhi e parlarci con onestà. Soprattutto, per quanto mi riguarda, gestiva uno dei più importanti cineforum dell’epoca, dove sono subito andato.
Qual è stato il primo film che hai visto?
Rocco e i suoi fratelli. Dopo tre ore, sono dovuto correre a casa: c’era mio padre preoccupatissimo che mi aspettava. Ma da quel momento non ho più smesso. Sono entrato nella macchina del cineforum. Portavo i microfoni, seguivo le interviste. Passarono dei personaggi importantissimi, come Domenico De Masi, che mi fece innamorare della sociologia, e Goffredo Fofi e altri critici. Ed è stato in quel momento che ho capito.
Che cosa?
Che il cinema non era solo pulsioni erotiche per noi adolescenti rintontiti dagli ormoni. Ho capito che c’era altro, che ci poteva essere un pensiero bello dietro determinate storie.
Durante la puntata di Tintoria di cui è stato ospite, Paolo Sorrentino ha detto che gli attori si dividono fondamentalmente in due categorie: gli agonistici, che non vedono l’ora di dimostrare al regista di saper fare qualcosa, e i bambini, che invece vanno accuditi. In quante e quali categorie, invece, si dividono i registi?
Secondo me ci sono i registi gratificanti e quelli non gratificanti. E questo, però, non significa che i primi sono bravi e che i secondi non lo sono o viceversa.
Che cosa deve fare un regista per essere gratificante?
Sostanzialmente, ci sono i registi che… come dire… ti dicono di venire «già pisciato e cacato» (ride, nda) e ci sono quelli che provano a creare una comunità e una relazione umana con gli attori. Nella vita, ovviamente, ti capitano entrambi questi tipi di registi.
Tu hai incontrato più registi gratificanti o più registi rigidi?
Direi che sono stato fortunato, e ne ho incontrati molti gratificanti. Che poi sai, alla fine i più bravi finiscono per essere quelli meno gratificanti (ride, nda).
Tu quali preferisci?
Paradossalmente, quelli meno gratificanti.
E perché?
Perché quando si crea un dialogo e poi viene accettato un mio suggerimento, vado nel panico. Entrare nella scrittura di un film, su cui altre persone hanno già lavorato per mesi e mesi, addirittura per anni, dopo che sono state attraversate innumerevoli fasi e innumerevoli dolori, è una cosa complicata. E mi preoccupa.
È un po’ come il rapporto tra insegnanti e allievi? Serve sempre un po’ di distanza?
Quel famoso prete di cui ti ho parlato prima diceva una cosa. Era una frase di Stalin.
Stalin?
Sì, era un prete e citava Stalin. Oramai non possono più scomunicarlo, quindi posso dirlo. Ripeteva sempre che con noi bisognava usare il bastone e la carota. E tutto, se vuoi, si riduce a questo.
Per alcuni attori e attrici, tu oggi sei un maestro. È una dimensione con cui, in teatro e sui set, hai finito per confrontarti?
Non lo so, ti dico la verità. Non è una cosa che dipende da me o che cerco. In alcuni momenti puoi essere un riferimento, in altri quasi un deterrente. Quello che credo è che questa sia una professione che si può imparare ma che non si può insegnare. Si possono dare degli esempi, delle linee guida, come il rigore nelle scelte e il tipo di viaggio che si può fare dentro sé stessi, e attraverso cui far capire agli altri quello che pensiamo del nostro ruolo. Ma trasmetterlo è veramente complicato. Questo, alla fine, è un mestiere che si ruba. Non ti viene consegnato da qualcuno. Ci sono le scuole di recitazione, encomiabili, che ti danno degli strumenti e ti permettono di arrivare fino in fondo. Per quanto mi riguarda, io sono un autodidatta e ho rubato un po’ da tutti.
Che cosa conta?
Riuscire a essere unici. E se partiamo da questo, se partiamo dall’unicità che deve avere l’attore, capisci che è difficile tramandarlo: l’unicità è tale proprio perché appartiene a una sola persona. Non credo nemmeno nel processo imitativo. Tutti devono sforzarsi di essere unici, con tutti i limiti che questo può contenere.
Che cosa significa «unico»?
Sicuramente non significa pigro. Non puoi essere stitico in quello che fai. Unicità significa fare i conti con sé stesso, con i mutamenti che si attraversano nel corso del tempo: quello che sei a 60 anni non coincide con quello che eri a 30; e quando avevi 30 anni, avevi una consapevolezza diversa da quella che hai ora a 60.
Quando viene costretto a dare una definizione di antropologia, Marotta dice che significa vedere. Che cosa vuol dire vedere per un attore?
Il cinema è molto legato all’antropologia, se ci pensi. Perché è legato ai corpi, alle facce, agli occhi, ai collegamenti che tengono insieme sguardi e reazioni. E ovviamente un attore è figlio del suo tempo e appartiene a una tribù. Vedere può essere l’obbligo morale per un intellettuale di non fermarsi alla superficie e di andare oltre, di raccontare ciò che scopre e dirlo. Il primo intellettuale della storia, probabilmente, è stato quel bambino che ha detto: il re è nudo. Quindi vedere nel senso di riconoscere quelle cose che gli altri insistono nel voler evitare, e poi esprimerle.
Ed è una cosa difficile da fare?
Non bisogna essere superficiali e non bisogna mai accontentarsi di quello che ci circonda e di quello che ci dicono gli altri. Devi cercare quello che per te è importante, quella che pensi possa essere la tua strada. Anche perché, come ti dicevo, questa cosa muta sempre. Si capisce un po’ alla volta, crescendo. Alla fine quello che cerchiamo siamo noi stessi.
Per te, in questo momento, che cos’è importante?
La prima cosa che mi viene da dirti è, ovviamente, ‘a salut.
E la seconda?
Riuscire a farmi scivolare addosso le cose, a non pensarci troppo. Ma quella penso che sia l’ultima lezione che si impara. Viene addirittura dopo il vedere, e personalmente non credo che ci arriverò mai.