Avvenire, 28 ottobre 2024
Ipertrofico e senza vuoti: l’italiano radiofonico
Veloce, brillante, accattivante. E soprattutto farcita di “comunque”, “appunto”, “volevo dire”, “alla grande”, “eccezionale”. È la lingua della radio, la scatola parlante che in Italia compie cento anni e che è stato il «primo mezzo» a italianizzare il Paese, ossia a «penetrare nelle masse abituate a impiegare quasi esclusivamente il dialetto», scriveva Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita. Per certi versi non poteva essere altrimenti per un device (si direbbe nel 2024) in cui «la parola è protagonista», ricordano Nicoletta Maraschio e Francesca Cialdini. La prima è l’ex presidente dell’Accademia della Crusca che insegna all’Università di Firenze. La seconda è ricercatrice di linguistica all’Università di Modena e Reggio Emilia. Insieme firmano il volume L’italiano alla radio (Carocci, pagine 140, euro 13,00), appena uscito in occasione del “giubileo” delle trasmissioni via etere. Quella che oggi esce da altoparlanti o cuffie è una lingua amica e inclusiva dove una delle parole che ha più successo è “dunque”, secondo la radiografia linguistica delle stazioni diffuse nella Penisola. Congiunzione che è «capace di articolare e nello stesso unire l’andamento di molti eterogenei interventi mandati in onda», sottolineano le due studiose. Vale lo stesso per altri «segnali discorsivi» o avverbi che pullulano davanti ai microfoni: “ecco”, “insomma”, “allora”, “effettivamente”, “sicuramente”. Sono anche «riempitivi». Perché la radio è segnata dall’horror vacui, o meglio dal terrore del silenzio. Fiumi di parole (e musica) dove ciò di cui si discetta è spesso e volentieri “magnifico”, “splendido”, “straordinario”, “pazzesco”. Aggettivi accompagnati in molti casi da “davvero” o “veramente” che confermano la «tendenza enfatizzante tipica dei media», notano Maraschio e Cialdini. La radio è “maxi”, “mega” e “super”. Nel senso che furoreggiano i suffissi: dal “mega-concerto” al “maxi-evento”. Come trionfano espressioni che riempiono soprattutto i programmi di intrattenimento: “un botto”, “ci sta”, “coda di paglia”. Poi, quando va in onda lo sport, a cominciare dalle cronache in diretta delle gare, si impongono “per il rotto della cuffia”, “il cerino in mano” o “la ricerca disperata”. Ma anche il “rigorino”, neologismo legato alla tecnologia Var che dice come la radio non sia soltanto un recettore e un amplificatore della lingua-standard «sintonizzandosi sul Paese», scrivono le due autrici, ma anche un laboratorio comunicativo. Lo testimonia, per citare un altro esempio, “resilienza”, vocabolo oggi in voga ma che l’etere ha fatto entrare nelle case e nelle auto (dentro cui gran parte degli italiani accende la radio) ben prima che il suo uso fosse così diffuso.
Se il medium inventato da Guglielmo Marconi è stato al centro dei cambiamenti sociali e politici dell’ultimo secolo, ha anche contribuito alle trasformazioni linguistiche. È il caso del passaggio dal “lei” al “tu” che negli studi è ormai di casa. Oppure del declino del pronome “egli” che anche nell’italiano trasmesso è sostituito da “lui”. E in un secolo è mutato l’italiano in Modulazione di frequenza e Dab. Da una radio che «parlava come un libro stampato» si è arrivati oggi a un vocabolario “diffuso” dove purtroppo anche il turpiloquio trova non solo spazio ma quasi un posto d’onore. A giocare un ruolo cruciale è il conduttore che può «deformare» lessico e sintassi creando un «iperparlato» così rapido e frammentato che «difficilmente è rintracciabile nelle conversazioni» quotidiane. È questo un altro tratto caratteristico della lingua fra le onde (elettromagnetiche) e adesso anche via Internet che continua a fare breccia in oltre due terzi degli italiani: tanti restano gli ascoltatori giornalieri della cara, vecchia e sempre giovane radio.