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 2024  ottobre 28 Lunedì calendario

Con le manovrine non si fa la storia

Che Giorgia Meloni avverta il bisogno di “fare la storia” è cosa certamente encomiabile. Dio sa quanto sarebbe necessario! Una formidabile politica di redistribuzione della ricchezza per impedire la frana da ceto medio a proletariato (coloro che non posseggono se non la propria prole) e da proletariato a miseria, di tanti nostri concittadini; un rovesciamento della tendenza decennale al ritorno a una scuola e a una sanità di classe; la riforma di un assetto regionalistico fonte di sprechi e spese incompatibili con ogni politica sociale. “Fare la storia” in questo Paese significherebbe tutto questo, e in più svolgere una funzione attiva nel dare all’Europa una sua missione globale, a partire da una vera politica per l’immigrazione. Auguriamoci che la Meloni ne sia in grado nel prossimo futuro e per il momento accontentiamoci delle sue storielle e delle sue manovrine. Queste ultime, lasciando perdere propagande del governo e contro-propagande da parte delle cosiddette opposizioni, seguono sostanzialmente la traccia delle precedenti, obbedienti più di loro a norme europee e “leggi” di mercato. Per il resto spostano qualche vecchio mobile da una stanza all’altra dell’antica dimora. L’unica decisione che esprima una qualche linea politico-culturale è il taglio del reddito di cittadinanza – ed è decisione che palesa una completa cecità riguardo ai drammatici problemi che investiranno tutto il mondo industrializzato con l’introduzione sempre più massiccia delle nuove tecnologie. Certo, nessuna Auctoritas europea avrebbe condannato l’Italia anche se si fosse realizzata l’audacissima idea di chiedere qualche briciola a società che hanno realizzato in questi anni felici di Covid e guerre miliardi di profitti. Ma tant’è, è noto che sempre i più deboli sono più realisti del re. Lasciamo che i maestri della “destra sociale” ai quali Meloni & Co. dicevano di ispirarsi si rovescino nelle loro tombe, e celebriamo piuttosto la definitiva assunzione della nostra premier all’èlite globale neo-liberista.Della destra-destra, peraltro, rimangono saldamente nei comportamenti, nel linguaggio e in molte iniziative dei nostri governanti alcuni dei tratti più odiosamente tipici. I quali sono stati segnalati, senza particolare enfasi direi, dalla Corte internazionale di giustizia suscitando un vespaio di vacue polemiche. Che il linguaggio di alcuni nostri politici sia un hate speech degno del miglior Trump, un linguaggio di disprezzo, se non di odio, nei confronti di altre culture e etnie, e insieme una costante demonizzazione dell’avversario politico, potrebbe essere derubricato a questione di semplice retorica, se esso non fosse invece il segno di come si affrontano e si intendono affrontare non solo l’epocale problema dell’immigrazione e della integrazione tra popoli e culture, che essa rende necessaria, ma tutte le politiche di genere e di difesa dei diritti che vi sono connesse. Qui davvero si confrontano visioni del mondo, idee riguardanti la nostra civiltà, e cioè i valori che intendiamo essa debba far valere su scala globale. Poiché un valore o pesa effettivamente, e diviene diritto positivo, norma di governo, oppure è chiacchiera indecente.Su questi aspetti si è concentrata nell’ultimo periodo la polemica con la Magistratura. La vecchia sete di impunità ha assunto un colore diverso e, in qualche modo, una sua dignità culturale e politica. Si tratta di un confronto a tutto campo sulla prospettiva generale in cui collocare una politica di sicurezza e di ordine pubblico. I provvedimenti di cui Salvini è accusato, così come il “modello albanese” di accoglienza-e-rimpatrio stoppato dalla Corte di Giustizia, vengono da più parti criticati come segno di una politica che interpreta il bisogno di sicurezza in termini di discriminazione e di chiusura identitaria. La critica, a mio avviso, è fondata. Ma c’è ben altro, che proprio la polemica con la Magistratura evidenzia.L’azione politica non solo rivendica – come nel secondo Dopoguerra non era mai avvenuto – una piena autonomia rispetto a ogni considerazione di carattere etico, ma esprime un’intolleranza sempre maggiore rispetto a quegli organismi che, dopo le tragedie della prima metà del Novecento, erano stati inventati per “giuridicizzare” in qualche modo il conflitto politico. Il fine politico intende travalicare ogni giudizio che non sussista in funzione di questo stesso fine. La sua legittimità si fonda, al più, sul fatto che esso esprime la volontà di una maggioranza. Questa linea comporta lo smantellamento in atto dell’immagine e della funzione dell’ONU e delle Corti internazionali. Non solo le tragedie che viviamo mostrano il fallimento completo dei principi che informano queste ultime ("diritti umani"), ma oggi la stessa narrazione delle proprie gesta da parte del Politico non fa più a essi riferimento alcuno. Qui è la ragione storica dell’attuale confronto con la Magistratura. Questa, infatti, per la sua storia e per la cultura in essa predominante, è “fisiologicamente” portata a continuare a riferirsi a principi e diritti sovra-nazionali e in qualche modo anche meta-politici. Sono principi generali di solidarietà e di giustizia sociale, che si inquadrano in un più generale disegno di Diritto internazionale. Principi e disegno di cui oggi soltanto chi vive nei sogni può non avvertire lo sgretolarsi. A questo processo si oppone, ne sia consapevole o meno, l’azione di tanta parte della Magistratura. È un’azione politica? Nelle condizioni storiche attuali certamente anche. Nel momento che la lotta politica avviene sulla base dell’esercizio della forza, è inevitabile che a una tale deriva si opponga quella cultura che vuole sovrana la legge, che ricerca instancabilmente un Diritto capace di risolvere i conflitti, che vorrebbe incarnare quell’idea di giustizia che permea tutta la nostra stessa Costituzione.