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 2024  ottobre 28 Lunedì calendario

Intervista a don Claudio Burgio, cappellano al Beccaria

Un figlio unico che vuole diventare prete. Come lo disse ai suoi genitori?
«Mi ricordo che eravamo a cena. L’ho presa un po’ alla larga, anche se quella sera capii che loro avevano intuito dove andavo a parare. Ho detto: ho preso una decisione, vorrei entrare in seminario, vorrei un periodo di verifica per capire se è davvero la mia strada. Rimasero un po’ scossi, soprattutto mio padre... Ma siamo sempre stati gente di chiesa, so che erano felici se io ero felice».
Quanti anni aveva?
«21. Ricordo anche le facce dei miei amici quando lo dissi a loro».
Che facce?
«Diciamo stupefatte, va...».
Quanto durò quel «periodo di verifica?».
«Mi sono dato un anno di tempo per capire meglio e alla fine di quell’anno ho avuto un piccolo ripensamento, mi sono detto: provo un altro anno e vediamo. Come vede sono ancora qui... Ma sa qual è la cosa buffa?».
Quale?
«Ho scoperto in seguito che anche mio padre aveva fatto un’esperienza in seminario, dai frati in Sicilia. Poi conobbe mia madre e vinse lei...».
Nel suo caso non c’era un amore che potesse vincere?
«Ho avuto qualche fidanzatina, sì. Ma non rapporti seri, cose velocissime. Il batticuore vero l’ho avuto soltanto per Dio».
Don Claudio Burgio racconta di sé e si rende conto di non averlo mai fatto prima. Quando lo cercano per intervistarlo di solito è perché da qualche parte un ragazzo l’ha combinata grossa. Lui, il teorico del «non esistono ragazzi cattivi», come si intitolava il suo primo libro, conosce come forse nessun altro nel nostro Paese il lato oscuro dell’adolescenza. «Perché guardo i ragazzi da due avamposti speciali», dice. Cioè da cappellano del Beccaria – il carcere minorile milanese dove arrivò con don Gino Rigoldi 20 anni fa come cappellano volontario – e da fondatore e cuore di Kayròs, comunità di accoglienza e servizi educativi per minori, a Vimodrone. È appena arrivato in libreria il suo Il mondo visto da qui. Sottotitolo riflessioni di un prete in carcere al tempo delle baby gang (Piemme), «un viaggio nel mondo adolescenziale visto dalla prospettiva del Beccaria», sintetizza lui.
Dei ragazzi parleremo più avanti. Ora torniamo a lei. Classe 1969. Nato a...
«Nato e cresciuto a Milano, quartiere Giambellino. Famiglia normale e cattolica. Facevo il classico ma non ero quel che si dice uno studioso. Preferivo di gran lunga la musica, che è sempre stato un grande amore, oppure il calcio».
È vero che cantava nel coro delle voci bianche del Duomo?
«Sì. Da piccolo facevo parte del coro della Cappella musicale del Duomo e il maestro don Luciano Migliavacca guidò la mia formazione musicale. Molti anni dopo sarei diventato io il direttore della Cappella musicale dove avevo cantato da piccolo. Ero l’allievo che succedeva al maestro. Ho nel cuore un episodio bellissimo da piccolo corista».
Quale episodio?
«Al funerale di Montale cantai una sua lirica tratta da “Ossi di seppia” e composta da Migliavacca nella notte. Ero piccolo ma provavo già fascino per quel poeta. Anche se il funerale era cristiano lui di fatto era un ateo, ma aveva un’apertura all’assoluto. Ricordo che di quel fatto parlaste anche voi del Corriere».
Oggi non fa che interagire con ragazzi in difficoltà, ma lei ha mai avuto traumi adolescenziali?
«Quand’ero un ragazzino erano gli anni dell’eroina, vedevo i giovani perduti per le strade, i morti per overdose per terra. Ma mi sembrava tutto distante da me; io vivevo un’adolescenza quieta, nella mia comfort zone. Finché i compagni del liceo non mi invitarono a far volontariato nel doposcuola in una comunità di minori alla periferia di Milano».
Fu il suo spartiacque?
«Sì, scoprii di aver una predisposizione per comunicare con quei ragazzi e cominciai a farmi domande che poi mi portarono alla scelta vocazionale».
Ingresso in seminario nel 1990, ordinato sacerdote nel 1996.
«Fui ordinato dal cardinale Carlo Maria Martini che per me è stata una figura fondamentale. Poi da direttore della Capanna musicale ho preparato diversi canti per il suo funerale...».
Ancora un funerale...
«Beh, ricordo quei canti ma ricordo anche lui come uomo d’ascolto. Gli ho parlato tante volte a tu per tu. Una volta fu un colloquio per me decisivo. Avevo appena aperto Kayròs e un mio superiore non troppo d’accordo mi disse: che vuoi fare adesso? L’assistente sociale? Avevo 30 anni, quella comunità sembrava una mia follia giovanile. Per un diocesano come me sarebbe stato più normale occuparmi di parrocchie, oratori».
Ma lei decise di non arrendersi, giusto?
«Decisi di chiedere consiglio e conforto al vescovo che mi aveva ordinato. Ricordo che gli dissi: padre Carlo, sto facendo davvero una follia? Lui mi guardò e rispose: “In te c’è la vocazione nella vocazione per vivere il ministero con i ragazzi compromessi. Sono cose che vengono da Dio, si capirà nel tempo. Tu vai avanti e non preoccuparti, fidati di Dio”. Mi regalò due libri, la dedica dice: “A don Claudio che vede il mondo con gli occhi di Dio”. Per me quello era un certificato di garanzia. Kayròs è ancora qui tra noi».
Ma davvero lei è convinto che non esistano ragazzi cattivi o irrecuperabili?
«Per me no, non esistono. Sono convinto che tocchi sempre all’adulto trovare la via. Lui è difficile? Devi cambiare paradigma educativo. L’approccio moraleggiante, e ancora di più quello dell’autorità intesa come potere, oggi sono inapplicabili. Non funzionano».
E che cosa funziona?
«L’ascolto. Il dare tempo al tempo perché trovino il loro spazio e la loro strada. Funziona intercettare e coltivare i loro sogni e accettare le loro debolezze. Funziona il concetto di prendersi cura di loro, in senso ampio, e creare condizioni di fiducia. La mia missione non è salvarli né aspettarmi risultati a tutti i costi. La mia missione è accompagnarli per un pezzo di strada della loro vita e offrire loro la possibilità di uscire dalla via sbagliata. Non ho ansia da prestazione».
D’accordo. Ma ci sarà stata una volta che è andata storta.
«Altro che una! Ci sono storie che ho vissuto con amarezza perché ci sono ragazzi che hanno fatto scelte davvero sbagliate, magari dopo anni passati con noi».
Ci faccia un esempio.
«Per esempio Tarik e Monsef, due ragazzi marocchini che hanno vissuto a Kayròs per cinque anni. A un certo punto sono partiti per la Siria per unirsi all’Isis. Quando la Digos me l’ha detto non volevo crederci. Uno di loro dopo un mesetto mi ha scritto un messaggio: “Grazie di tutto don, che Allah ti guidi sulla sua retta via, ci vediamo in paradiso. Inshallah”. Ha rischiato la vita per scrivermi quel messaggio perché l’Isis vietava di farlo. Questo vorrà pur dire qualcosa... Mi ha fatto molto riflettere. Un terrorista Isis che scrive a un prete cattolico. Ho riflettuto sulla necessità di creare un dialogo interreligioso».
Sa com’è andata a finire per loro?
«Tarik è morto in combattimento, Monsef si è costituito alle forze curdo-americane».
In questo suo nuovo libro lei racconta questa e molte altre storie dei «suoi» ragazzi.
«Racconto di qualche fallimento ma anche di molte rinascite. Per esempio Daniel che è passato dalle rapine in banca alla laurea e alla professione di educatore. Oppure Lamine, un ragazzo arrivato dal Senegal. Un anno di schiavitù in Libia, piccoli reati di sopravvivenza in Italia e poi arriva davanti a me. Era fisicamente così imponente che ha fatto svenire di botte più di un ragazzo. Però ho capito che ogni volta che perdeva la pazienza succedeva in cucina. E sa perché?».
Posso immaginarlo.
«Perché il tema delle litigate era il cibo. Lui aveva patito così tanto la fame che non potevi toccarlo sul cibo. Quando l’ho capito è cambiato tutto. È finita che un giorno, durante un incendio in un palazzo di Vimodrone, si è arrampicato per due piani e ha salvato quattro persone dal fuoco. Oggi si occupa di sicurezza. Non è meravigliosamente paradossale?».
Se dovesse dire qual è la cosa più bella che le capita ogni giorno stando con i ragazzi?
«Adoro la loro schiettezza. Secondo me è segno di complicità e fiducia fra noi».
Di cosa parla esattamente?
«Per farle capire: viene un prete da noi e si ferma a cena. Ovviamente prima di cenare si fa il segno della croce, io lo seguo. Ma c’è una voce che fa: “don! ma quando mai... tu che ti fai il segno della croce”. Che figuraccia. Oppure una volta sto parlando con uno di loro, lui si ferma e mi fa: “don, mi hai dato del “tossico”, ma ti rendi conto? Non eri tu che dicevi che le persone non si definiscono con il prodotto delle loro azioni?”. Questo per dire che mi sgamano subito con la schiettezza, appunto. E io imparo da loro».
Non sarà eccesso di buonismo, il suo?
«Eh no! questo no. Il buonismo è una cattiveria per le vittime e per l’autore. È come dire: siamo buoni con lui che non può cambiare, poverino. E invece il punto è trattare quel lui da persona vera, che possa diventare adulto e capace di rinascita. Io credo molto nella giustizia riparativa. Tanti non avvertono il dolore delle vittime. Quando ci arrivano ecco: quello è il momento della consapevolezza e della rinascita».
Il rap è stato il filo conduttore per la salvezza di tanti dei suoi ospiti a Kairòs, dove avete anche inaugurato un’etichetta discografica...
«Vede, magari questi ragazzi non parlano molto ma nelle canzoni, mi creda, dicono tutto. Nei testi c’è la loro vita, la loro sofferenza. Abbiamo incuriosito rapper famosi come Marracash che ci è venuto a trovare e ci ha regalato alcuni dei suoi vestiti di scena... Achille Lauro ha voluto i ragazzi nel video di un suo brano. Tutto questo conta, per loro. Ogni cosa buona va coltivata perché è un passo sulla via della rinascita».