Il Messaggero, 27 ottobre 2024
Il carnevale romano e il giro delle sette chiese
Il giro delle sette chiese è un pellegrinaggio cattolico di circa 20 chilometri, che oggi si svolge a settembre e a maggio, ma un tempo si compiva nella Settimana santa, prima di Pasqua, ed era in chiara antitesi alle paganissime manifestazioni del carnevale, oltre che di Roma, tipiche soprattutto di Venezia o Napoli, dove però le sette chiese erano ignote.Non a caso, ha messo in musica il «Carnevale romano» anche un’ouverture di Hector Berlioz (1803-69). Era una follia collettiva, che animava buona parte della città; eternata migliaia di volte dai maggiori pittori, che culminava nella famosa corsa dei berberi, cavalli senza fantino, lungo via del Corso. C’era di tutto, e di tutto accadeva; permessa quasi ogni licenza. La festa è antichissima; ma si sviluppa soprattutto nel Quattrocento, quando era papa il veneziano Paolo II Barbo, che aveva voluto palazzo Venezia. Nel 1466, feste e cortei costarono ben 400 fiorini. Era l’erede palese degli antichi «Saturnali». I palazzi adobbati; le maschere; la «festa dei moccoletti», e così via [descritto anche nel Conte di Montecristo di Dumas, ndr].Come alternativa a questo paganesimo, Filippo Neri riesuma una tradizione remota: il giro delle sette chiese, che non è ormai più un’espressione gergale romanesca, ma è diventato un modo di dire dell’intero Paese, e significa girare a vuoto. Non si sa esattamente quando sia nato; forse, in Francia nel VII secolo, quando Santa Begga fa costruire sei oratori accanto al suo, appunto le Sette chiese. Però, dal 1300 a Roma, iniziano le indulgenze. Poi, Filippo Neri fa tornare in auge la pratica appena diventa prete, nel 1551: ispirato dagli itinerari processionali di Gregorio Magno, per visitare le tombe di Pietro e Paolo. I pellegrinaggi otterranno immenso successo. Il 7 è un numero biblico fondamentale: si cantavano i sette salmi; si chiedeva perdono per i sette peccati capitali e si domandavano le sette virtù ad essi contrarie; si meditavano le sette tappe nella Passione di Cristo, e le sette sue parole sulla Croce. Si evocavano i sette doni dello Spirito Santo; i sette sacramenti; le sette opere di misericordia.Il pellegrinaggio era troppo lungo per una sola giornata: la prima, si limitava a San Pietro. Si partiva da San Gerolamo della Carità, sede originaria di San Filippo, poi dalla sua Chiesa Nuova. Varcato il Tevere a ponte Sant’Angelo, la prima sosta era all’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, per visitare i malati; quindi, si raggiungeva la basilica, in cui si svolgeva la prima funzione religiosa.Il percorso comprende le cinque basiliche papali e le due minori più importanti. All’alba del giovedì grasso, tappe a San Bartolomeo sull’isola Tiberina e al Circo Massimo. Per la via Ostiense si arrivava a San Paolo fuori le mura. Poi, a San Sebastiano e alle sue catacombe. Per l’occasione, era aperta villa Mattei sul Celio: una merenda dei frati filippini. Da lì, al Laterano e Santa Croce in Gerusalemme, con sosta alla Scala Santa. Seguivano San Lorenzo fuori le mura, e Santa Maria Maggiore, fino alla sera. Dal Quattro e nel Cinquecento, compaiono sul mercato le stampe di Roma con le Sette Chiese, assai appetite dai pellegrini. E nel 1586, Sisto V Peretti riconosce la pratica.Dei tracciati per le «Sette chiese» ci sono ancora. La via omonima lunga oltre tre chilometri, si chiama così perché univa la rupe, a 30 metri dalla basilica di San Paolo dove il santo fu sepolto, all’Appia antica e a San Sebastiano: era parte dell’itinerario dei devoti, che compivano la mistica (e faticosa) esperienza. La via si chiama così almeno da metà Seicento. E un’altra strada di questa processione univa la basilica di San Paolo a via San Sebastiano: nel Medioevo, era detta la Via Paradisi, cioè del Paradiso. Oggi, il pellegrinaggio non è più legato alla Pasqua; ma si fa sempre a settembre e a maggio.