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 2024  ottobre 27 Domenica calendario

Una giornata al mare con Italo Calvino

Ho conosciuto Italo Calvino tramite Gianfranco Baruchello, allora mia guida esistenziale. Correva l’anno scolastico 1969/70. Ero in terza liceo e Arturo Schwarz già aveva deciso di accogliermi nella sua scuderia, anche se ero un ronzino incrostato di ingenuità, facili entusiasmi e miasmi vari da adolescente pencolante tra l’entomologia, il basso elettrico e l’arte. Ovviamente Schwarz aveva dato una decisa spallata a tutte quelle incertezze. Pagava sull’unghia ogni mio cartoncino. Roba da non crederci.
A scuola ero un vero somaro, falsificavo la firma di mia madre sulle giustificazioni per le assenze reiterate, vendevo i libri di testo al mercatino dell’usato prima ancora di averli sfogliati e cose del genere. Per farmi bello col professore di lettere decisi di mettere a frutto la conoscenza diretta col Grande Scrittore e presentare una ricerchina su di lui.
Prima, però, la feci valutare al Soggetto in causa (Italo Calvino) che la lesse e l’approvò. Chi non la approvò fu, invece, proprio l’insegnante che ebbe a obbiettare il fatto che dovevo lavorare solo su autori italiani. Aveva confuso Calvino Italo con Calvino Giovanni (Jehan Cauvin), protestante e pure francese. Fu una scena tipo l’esame sul poeta Alvaro Rissa in Ecce bombo. Non osai replicare. Ragazzi, che tempi!
Fu comunque l’occasione per un ragazzetto alle prime armi di creare un contatto diretto col Mito.
A Calvino piacevano i miei disegnini. Erano dei cartoncini ripartiti in tanti piccoli quadratini delimitati da una minuta puntinatura. All’interno di ciascuno di quei quadratini erano riprodotti deserti, rocce rimodellate, grotte, fiumi, scogli, vulcani. Visti da molteplici punti di osservazione, quasi un catalogo di possibili variazioni di uno stesso argomento, solitamente geologico. Mi sentivo un po’ un artista enciclopedista, un minimalista che pensa su scala planetaria.
Un dì, a Castiglion della Pescaia, Italo mi disse che gli facevano venire in mente alcune raffigurazioni immaginarie degli oceani svuotati che aveva visto su un antico codice, gli ricordavano un certo cartografo rinascimentale. Si interruppe di colpo perché non gli sovveniva il nome. Stette ore e ore a rimuginarci su finché, probabilmente attivando i superpoteri cosmicomici di cui era dotato, recuperò quel nome dagli ambulacri più profondi e sacri del suo archivio cervellare. Dopo una giornata di bagni, pranzo e chiacchiere in pineta, all’improvviso, congedandoci, pronunciò un nome, solo quello: Abraham Ortelius. Lì per lì non capii cosa intendesse dire, poi realizzai che mentre noi ci divertivamo scioccamente, lui si lambiccava la cucurbita, si arrovellava sul nome del cartografo, sulla frase lasciata in sospeso e la terminava come si chiude vittoriosamente una partita a scacchi (era esattamente il 10 agosto 1974).
Mi parve giusto fargli un acquerello a tema marino, composto da un inventario di onde. Onde di profilo, di fronte, gonfie, infrante, fissate nell’istante, colte in tutte le loro declinazioni e da tutti gli angoli visuali, ciascuna contenuta e isolata nel suo quadratino. Quasi la registrazione della visione di un occhio sfaccettato e coleotteresco capace di restituire infinite variazioni in un colpo solo. Decine di sguardi in uno.
Prontamente mi scrisse una lettera: «grazie delle onde verdi e celesti. Ecco un nuovo inesauribile tema che ti si apre, con la grande tradizione giapponese di Hokusai e i problemi tecnici di rendere l’inafferrabilità della schiuma» (1° febbraio 1975). Non passò molto tempo da quella lettera che sul «Corriere della sera» del 24 agosto 1975 pubblicò la prima delle avventure de Il Signor Palomar. Se non avete il «Corriere», prendete pure il Supercorallo relativo e vedrete che il Signor Palomar (Lettura di un’onda) sembra porre in essere la tecnica compositiva di quell’acquerellino, la fa sua, la traduce in parole.
Palomar si mette a enumerare, registrare e raccogliere virtualmente le forme che assume un’onda, cerca di isolarla, di fermarla nella sua mutevolezza. Perfino l’immagine scelta per la successiva copertina einaudiana del 1983 sembra riportarci a quei miei a ntiqui disegnini, allo schema che li sostiene. Quella copertina riproduce «Il disegnatore della donna coricata» di Albrecht Dürer, l’artista scruta la modella «attraverso una griglia a quadretti che gli permette di delimitarne i dettagli in modo sistematico, analitico e preciso».
Quando lessi il racconto mi sentii risucchiato in un gorgo di immagini e parole, precipitato in una sorta di cartone animato disneyano in cui, come l’apprendista stregone di Fantasia, venivo investito da un’acqua tumultuosa, dotata di vita propria, sfuggita al controllo del suo umile custode e ordinatore.
Mi sentivo travolto da qualcosa più grande di me. Capii perché avesse deciso di non citarmi, ero ancora troppo giovine, indegno di menzione, immeritevole di essere indicato come colui che forse aveva innescato un brano tanto fenomenale.
A me andava bene così. Cosa può volere di più un ventenne? Cosa si può desiderare maggiormente che conservare un ricordo tanto privato?
Nella mia megalomania ho sempre giocato sul titolo, l’ho sempre modificato in Pa(b)lomar.