Domenicale, 27 ottobre 2024
Così si perpetua l’élite britannica
Chi può essere considerato élite? John Scott, sociologo inglese, ha affermato nel 2003 che “élite” è «una delle parole più abusate». Reeves e Friedman, due prestigiosi accademici britannici, adottano una misura assai pragmatica: considerano come élite coloro che sono stati inseriti nel database “Who’s Who”, la biografia delle persone influenti nel Regno Unito, aggiornata ogni anno dal 1849.
Il “Who’s Who” fornisce una vasta risorsa empirica con il grande vantaggio di poter osservare come è cambiata l’élite nei suoi ranghi più elevati. Gli autori hanno studiato i profili, gli interessi e le carriere di oltre 125mila membri dell’élite britannica dalla fine del 1800 fino a oggi. Attualmente questo gruppo conta circa 33mila individui, ma gli autori si sono interessati a un sottogruppo peculiare, l’élite ricca, pari allo 0,01% della popolazione britannica, con l’avvertenza che l’élite britannica è una lente attraverso cui osservare qualunque élite del mondo attuale.
Il libro, arricchito di oltre 200 interviste a figure di spicco provenienti da vari contesti e professioni, consente di scoprire che i vertici sono cambiati meno di quanto si pensi. Chi è nato nell’1% più ricco ha oggi le stesse probabilità di entrare nell’élite di quanto ne avesse 125 anni fa. Dagli ecclesiastici e i militari di un tempo si è passati agli avvocati e alle figure dei media odierni. Le donne, escluse fino al 1897, costituiscono un terzo dei nuovi ingressi.
Più di un terzo ha frequentato Oxford o Cambridge, una quota che è cambiata poco dal XIX secolo, malgrado la crescita di altre università. Ciò che è mutato è il modo in cui le élite si presentano: sono diventate molto più abili e astute nel rappresentare sé stesse come persone “ordinarie”.
Mentre Sir Peter Daniell, negli anni Venti-Trenta, poteva affermare che le idee meritocratiche sono «dannatamente stupide», adesso coloro che sono ammessi a Oxford e Cambridge (una quantità sproporzionata di persone presenti nel “Who’s Who”) dichiarano di aver lavorato duramente per arrivare a questo traguardo. Una volta le generazioni più anziane, osservano Reeves e Friedman, non si vergognavano del loro snobismo e dei collegamenti che permettevano loro di entrare a Oxford o di ottenere un lavoro privilegiato in una grande azienda.
Le élite odierne invece insistono sovente sul fatto che sono arrivate al vertice grazie allo sforzo e al merito. Tali affermazioni, secondo gli autori, sono una sorta di interpretazione teatrale della normalità, progettata per rendere più accettabile l’ineguaglianza della ricchezza e per coprire con la patina della «legittimità meritocratica» i privilegi di nascita e di classe.
Così, persino i loro hobby sono diventati più simili a quelli di tutti gli altri. Nel XIX secolo, l’élite prediligeva il golf, la caccia e l’equitazione; nel XX secolo si interessava di arte e letteratura. Più recentemente, ha mescolato l’alta cultura con passatempi popolari come il cinema, la musica pop e il football. In pratica, la meritocrazia e la mobilità sociale verso l’alto sono miti creati dalle élite per mascherare i propri privilegi e «l’ombra lunga che la classe sociale proietta sulle vite delle persone» incombe sulle comunità oggi come ieri.
Nella loro conclusione, Friedman e Reeves propongono alcuni modi per sconvolgere l’élite britannica dal momento che i suoi «schemi di riproduzione», in cui i figli seguono i genitori nel privilegio pressoché permanente, «richiedono un’urgente attenzione politica». Perché le élite che abbiamo influenzano la politica che otteniamo.