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 2024  ottobre 27 Domenica calendario

C’era una volta il Washington Post

«Follow the money». È il consiglio, diventato proverbiale, che la fonte anonima ribattezzata Gola profonda diede a due giovani reporter del Washington Post per scoprire le malefatte del Watergate, lo scandalo che portò Richard Nixon a dimettersi da presidente degli Stati Uniti. Una pagina gloriosa del giornalismo americano, diventata epica, anche per chi non fa questo mestiere, dopo Tutti gli uomini del presidente, il film tratto dall’inchiesta dei due intrepidi cronisti, Bob Woodward e Carl Bernstein, interpretati sul grande schermo da Robert Redford e Dustin Hoffman. Mezzo secolo più tardi, «seguire la pista dei soldi» è il suggerimento giusto per comprendere la clamorosa decisione del medesimo quotidiano di non dare un endorsement nella sfida per la Casa Bianca tra Kamala Harris e Donald Trump: ovvero di astenersi dal rivelare a chi dei due va l’appoggio di uno dei più importanti quotidiani degli Usa.Una decisione presa da Jeff Bezos, il miliardario fondatore di Amazon che nel 2013 acquistò il Post promettendo di modernizzarlo e di salvarlo da un progressivo declino. Dal punto di vista finanziario, l’impresa è riuscita: oggi il quotidiano della capitale ha 2 milioni e mezzo di abbonamenti digitali, che ne fanno il terzo maggiore giornale americano dopo New York Times e Wall Street Journal. Ma dal punto di vista della tradizione che questa testata ha a lungo rappresentato, la modernizzazione è offuscata da ombre sempre più pesanti. Rifiutando di dare un endorsement nella corsa alla presidenza, contro la volontà della direzione e della redazione, Bezos ha rotto una continuità che durava dall’appoggio del Posta Jimmy Carter nel 1976 e che l’aveva sempre visto sostenere i candidati del partito democratico. Perché il Post, insieme al New York Times, incarna l’anima liberal dell’America: a questo punto è lecito pensare che non sarà più così.Anche perché la mossa del suo editore è l’ultima di una serie che vanno nella stessa direzione. Dapprima Bezos ha scelto come amministratore delegato un giornalista inglese, Will Lewis, proveniente dalla scuderia di Rupert Murdoch, il magnate dei media ultraconservatori sulle due sponde dell’Atlantico. Quindi ha nominato come direttore un altro giornalista inglese, Robert Winnett, proveniente dal Daily Telegraph, il quotidiano filo-conservatore britannico più schierato con Boris Johnson, provocando una tale rivolta in redazione da convincere Winnett a declinare l’incarico. Infine, il proprietario ha apertamente affermato che il Post deve rivolgersi a un pubblico più conservatore, ordinando di assumere commentatori di tale orientamento.Ma non scegliere fra Harris e Trump, in un’elezione come quella di quest’anno, è «un atto di codardia che ha come potenziale vittima la democrazia», commenta Marty Baron, l’ex-direttore del Post,fautore fino al 2021 del rilancio del giornale. Jeff Bezos non è necessariamente un trumpiano. La decisione di non appoggiare Kamala (come la redazione si apprestava a fare: l’editoriale era pronto), dicono le indiscrezioni, ha motivi principalmente economici: l’editore teme che, se Trump vincesse, gliela farebbe pagare danneggiando i suoi interessi.Giornalisti e lettori protestano furiosi. Ma qualcosa di simile è accaduto in un’altra celebre testata liberal, il Los Angeles Times, che a sua volta ha preferito non dare un endorsement. Per capire cosa sta succedendo nel giornalismo americano, insomma, basta «follow the money»: seguire la pista dei soldi, come Gola profonda suggeriva a due leggendari reporter.