Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  ottobre 27 Domenica calendario

In Africa non esiste il 118, e altre sulla sanità

Don Dante Carraro è tornato da poco dalla Sierra Leone, uno dei paesi – sono nove, insieme ad Angola, Costa d’Avorio, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Tanzania e Uganda – dove opera il Cuamm Medici con l’Africa. Ha partecipato al festival di Salute nell’ambito di un pomeriggio dedicato a OneHealth. Ecco il suo punto di vista.Don Dante, al Festival di Salute abbiamo parlato di OneHealth, una salute che comprende uomini, piante e animali. Ma già la salute degli uomini non è uguale dappertutto...«Non lo è certamente, ma la salute di chi vive in Africa è legata a quella di chi vive in Europa o in Italia, gli agenti patogeni, virus o batteri che siano, non guardano colore della pelle o ricchezza e lo ha dimostrato Ebola, o Covid. I patogeni si muovono con le persone e basta meno di un giorno per arrivare in aereo dalla Cina all’Italia. Quando parliamo di salute dobbiamo avere in mente il pianeta intero, perché i virus passano da uomo a uomo ma anche da animale a uomo. E colpiscono tutti».Colpiscono tutti, ma alcuni più duramente in assenza di farmaci o strutture ospedaliere.«Nell’Africa sub-sahariana muoiono 280mila donne di parto per delle stupidaggini, perché sono lontane da un ospedale e non hanno una macchina o una motoretta per arrivarci, o perché ci arrivano tardi per gestire il parto in sicurezza. Non si riesce a fare il cesareo perché non ci sono le sale operatorie, né gli strumenti e le competenze umane e si muore per un’emorragia post partum che si potrebbe risolvere con una trasfusione ma servono frigoriferi per conservare il sangue, reagenti per stabilire il gruppo, test per i virus. E generatori per i frigoriferi. In Sud Sudan c’è una ostetrica per diecimila partorienti. Quasi impossibile trovare un pediatra e impossibile trovare un neonatologo. Le morti al parto sono una priorità di salute, non solo per salvare le mamme ma perché non lascino orfani».Le criticità in Africa sono moltissime: si è mai scoraggiato?«Noi manteniamo la direzione dritta e andiamo avanti, tenacemente dal basso. Il nostro contributo alla salute globale è occuparci dell’ultimo miglio, che vuol dire mettere in atto interventi che possono sembrare minuscoli ma che riescono a cambiare la vita delle persone».Può farci un esempio?«Un progetto a cui tengo moltissimo è quello delle ambulanze e del numero di emergenza. Il 118 nel continente africano non esiste. In Mozambico siamo partiti da Beir a, una città da mezzo milione di abitanti, con 5 ambulanze e un centralino, e abbiamo cominciato ad assistere i parti urgenti e i bambini con malaria grave. Poi il ministro della Salute ha visto che la cosa funzionava e ci ha chiesto di replicarla nella capitale e in un’altra città del Paese. È il classico progetto partito dal basso, modello bottom-up. Perché quando parti dall’alto, magari finanziando i ministeri di questi Paesi, il rischio che il denaro non venga utilizzato è molto forte. Il modello cooperativo che parte dal basso ti dà la possibilità di verificare che il progetto funzioni e non ci siano sprechi».Don Dante, voi avete accordi con università it aliane per mandare medici in Africa: che tipo di esperienza è?«Una di quelle che cambia la vita, e che ti fa capire il senso di quello che hai studiato. Arrivano giovani medici, soprattutto pediatri e neonatologi, grazie a un accordo con 39 università, restano da 6 a 12 mesi. E tornano indietro con un bagaglio di energia».Lei vive tra Africa ed Europa: quali sono le criticità che vede da noi?«Una è strutturale: dobbiamo tenerci caro il nostro servizio sanitario, il rischio che vedo, se non si investe adeguatamente, è che ce lo perdiamo per strada. Poi medici e infermieri – che dovremmo imparare a ringraziare – devono essere pagati di più per la vita che fanno. E ricordare che il Servizio sanitario difende i più deboli ma non può finanziare tutto. L’altra cosa è quella che io chiamo passare dal lamento al rammendo, imparare tutti quanti ad avere un atteggiamento più costruttivo, riconoscere la professionalità del medico, costruire con lui un’alleanza. Non ha senso che chiunque pensi di contestare chi ha competenza solo perché va su google».