Corriere della Sera, 27 ottobre 2024
Intervista a Alberto Mantovani, immunologo
C’è un doppio paradosso nei premi: quando sono prestigiosi – come nel caso del riconoscimento «Lombardia è Ricerca» all’immunologo Alberto Mantovani – sono sì l’ulteriore occasione per sottolineare l’importanza del percorso scientifico e delle scoperte fatte. Eppure, allo stesso tempo, riportano alla memoria la traversata del deserto. Perché ogni scoperta, come spiegava l’epistemologo Thomas Kuhn, inizia come un sasso lanciato nello specchio d’acqua dello status quo. Essere pionieri significa cambiare le cose partendo da piccole increspature. «Nessuno ha mai messo in discussione i dati – ricorda Mantovani – però è vero che io stesso pensavo a noi immunologi come a una specie di riserva indiana. Tanto è vero che ancora alla fine del millennio c’era uno scetticismo diffuso sull’immunologia e sul contributo importante che potesse dare il sistema immunitario, in quanto tale, nella lotta ai tumori. Però devo aggiungere che tutto questo ha a che vedere con la vita scientifica: gli stessi autori che all’inizio si eramo mostrati scettici alla fine hanno accettato quello che io, che sono un amante di Ingmar Bergman, ho chiamato il settimo sigillo, cioè il contributo del sistema immunitario».
Ma dicevamo che i paradossi sono due. Il secondo lo svela sempre il professor Mantovani: «Le confesso un motivo di imbarazzo: i premi vengono dati a una persona, massimo a due o tre come nel caso del Nobel. Eppure dietro ce ne sono molte altre. Questo è certamente vero in biomedicina: a portare avanti le scoperte è sempre un gruppo di persone giovani che sono i ricercatori e le ricercatrici e poi ci sono le persone “dimenticate”, i tecnici e gli infermieri che sono altrettanto importanti. Nel ricevere il premio Robert Koch (prestigioso riconoscimento dedicato al grande antagonista di Pasteur durante quella che nell’Ottocento venne chiamata la caccia ai batteri, ndr) ho presentato una diapositiva con i miei tecnici che sono migliori del mondo». L’architetto Carlo Scarpa, autore tra l’altro della famosa Tomba Brion in Veneto, ricordava d’altra parte che non avrebbe potuto fare nulla senza il suo carpentiere. E quando scomparve gli volle edificare una delle tombe più belle del cimitero di Venezia.
Professor Mantovani se dovesse spiegare salendo pochi piani in ascensore l’importanza delle sue scoperte?
«Negli anni Settanta e Ottanta, andando contro le credenze prevalenti, ho scoperto che all’interno dei tumori c’erano cellule del sistema immunitario che erano passate al nemico: invece di difendere il corpo aiutavano la crescita tumorale. Questa scoperta ha avuto ricadute a livelli diversi: dal punto di vista del mio percorso scientifico mi ha permesso di scoprire molecole e geni, ma le ricadute di carattere generale hanno a che fare con la storia di un sogno. Usare il sistema immunitario contro il cancro in continuità ai lavori di Carl June (premiato da Lombardia è Ricerca lo scorso anno, per i contributi sulle Car-T, ndr) è andato incontro a fallimenti ripetuti».
È stata appunto la traversata del deserto...
«È stato un cambiamento di paradigma e dunque è stato molto difficile: quello che oggi sappiamo, come avevo previsto, è che il cancro non è solo la cellula tumorale perché nella sua nicchia ecologica ci sono anche le cellule del sistema immunitario passate al nemico o addormentate».
Questa visione ha conseguenze anche sul ruolo del nostro stile di vita.
«Questo è un altro contributo fondamentale. Per esempio quando siamo in sovrappeso dovremmo ricordare che il tessuto grasso è composto anche da molte cellule immunitarie disorientate. Sappiamo ora che l’esercizio fisico è anche una palestra per il nostro sistema immunitario. Capiamo ancora male come funziona, ma sappiamo che è così. Sono molto allarmato dal fatto che siamo il secondo peggior Paese europeo per numero di bambini in sovrappeso. Solo la Grecia sta peggio e questo avrà ricadute sul sistema sanitario».
La scienza come sempre è anche una palestra di errori sapienti.
«Dobbiamo sempre ricordare che anche la scoperta del Dna come informazione genetica non è stata accettata subito. La storia dell’immunologia è una storia di insuccessi ripetuti da cui abbiamo saputo imparare molto».