Corriere della Sera, 27 ottobre 2024
Indigeni contro accordo 30x30 sulla natura
Salviamo la natura, proteggiamo noi stessi. L’appello non cambia, ma il vertice sulla biodiversità, in corso a Cali, rivela anche tante contraddizioni. Sorella minore della COP sul clima, quella sulla natura fece sognare il balzo in avanti due anni fa con l’accordo 30x30 che prometteva di proteggere il 30% delle terre e dei mari entro il 2030. Poco, in realtà, si è fatto finora al riguardo. E questo di per sé non sorprende, pensando all’agonia della lotta al cambiamento climatico. Stupisce, semmai, che proprio nelle aree protette la biodiversità diminuisce più velocemente che fuori di esse. È il verdetto dei ricercatori del Museo di Storia Naturale di Londra che adducono varie cause. Ad esempio, alcune aree non sono progettate per preservare l’intero ecosistema ma solo alcune specie. C’è dell’altro. Attualmente, il 17,5% delle terre e l’8,4% dei mari sono protetti, ma all’interno di queste aree sono concesse autorizzazioni per esplorazioni petrolifere o minerarie. Accade in Congo, in Amazzonia, nel Sud-est asiatico. Senza contare che le comunità indigene sono contrarie all’accordo 30x30 perché, dichiara Survival International, «causerà un ulteriore sfratto di popoli dalle loro terre» e perché i piani a sostegno dei cosiddetti crediti di biodiversità potrebbero portare più danni che benefici, come accaduto con le compensazioni di carbonio. «Si favoriscono progetti dall’alto verso il basso, di stampo colonialista», denuncia la ong dei popoli indigeni. Un esempio? L’86% dei (pochi) finanziamenti finora approvati dal Global Biodiversity Framework Fund vanno a sole quattro «big org» come Wwf, Conservation International, Undp e Fao.